Coronavirus, il comitato dei parenti delle vittime presenta alla procura di Bergamo una denuncia collettiva contro ignoti (LaPresse)

Non sono più "eroi silenziosi"

È partita la caccia alle streghe contro chi ha combattuto la pandemia

Ermes Antonucci

Il “Denuncia-day” è solo l’antipasto di ciò che potrebbe accadere: politica delle denunce e nuove esondazioni giudiziarie. Tra Salvini e sit-in in procura

Roma. Decine di rappresentanti del comitato “Noi denunceremo-verità e giustizia per le vittime del Covid-19”, che su Facebook conta oltre 55 mila iscritti, sono scesi in piazza ieri a Bergamo davanti alla sede della procura per manifestare e per consegnare ai magistrati le prime 50 denunce, su un totale di circa 200, presentate dai familiari di persone uccise dal coronavirus. E’ stato definito il “Denuncia-day” ed è solo l’antipasto di ciò che potrebbe accadere nelle prossime settimane, con un’ondata di denunce e la conseguente apertura di inchieste da parte della magistratura nei confronti di medici, infermieri, dirigenti e operatori sanitari che negli ultimi mesi hanno lottato in prima linea contro il Covid-19, nonché di esponenti politici e amministratori che hanno gestito l’emergenza.

  

Se il dolore e la rabbia dei famigliari delle vittime del coronavirus appaiono comprensibili, le iniziative giudiziarie rischiano di trasformarsi in una vera e propria caccia alle streghe, in primis nei confronti di coloro che fino a pochi giorni fa venivano definiti “eroi silenziosi” e che si sono ritrovati ad affrontare una pandemia che ha colto impreparate tutte le nazioni del mondo.

 

“Non puntiamo il dito contro nessuno, raccontiamo ciò che è successo. Poi sarà la procura, con tranquillità e serenità, a individuare ipotesi di reato”, ha dichiarato durante la manifestazione di Bergamo Luca Fusco, presidente del comitato “Noi denunceremo”, prima però di puntare il dito contro una categoria ben precisa, la classe politica: “Se ci fosse stata la chiusura tempestiva della zona rossa nella provincia di Bergamo, forse non avremmo dovuto chiudere tutta la Lombardia”. 

   

“E probabilmente avremmo evitato il lockdown italiano”. Insomma, nel mirino del comitato dei famigliari delle vittime del coronavirus sembrano esserci soprattutto i politici e ieri, in curiosa coincidenza con la manifestazione, è giunta la notizia che sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro la procura di Bergamo interrogherà come persone informate dei fatti il premier Giuseppe Conte, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza, dopo aver ascoltato nei giorni scorsi il governatore della Lombardia Attilio Fontana e l’assessore Giulio Gallera.

   

Il problema è che, se si escludono ipotetiche condotte dolose (ma quale politico vorrebbe ammazzare i propri elettori?), le eventuali responsabilità degli amministratori locali e nazionali andrebbero valutate nella loro sede naturale, vale a dire le urne elettorali, di certo non dalle procure. In questo senso appare a dir poco imbarazzante la soddisfazione espressa da Matteo Salvini alla notizia dell’iniziativa della procura di Bergamo: “Dopo tante menzogne e attacchi vergognosi, giustizia è fatta: chi ha sbagliato deve pagare!”. A parte che non si capisce quale giustizia sia stata “fatta” (se si esclude la giustizia mediatica tanto cara a Salvini), ma ciò che più sorprende è che in questo modo pure il leader della Lega finisce per attribuire ai pm il compito di sindacare le scelte della politica.

   

Come dimostrare, poi, a livello processuale il nesso tra le decisioni adottate dalla classe politica e i decessi per Covid-19? Insomma, nulla esclude che alla fine, una volta aperte le inchieste giudiziarie e sull’onda di pulsioni giustizialiste, a dover rispondere dei numerosi decessi causati dalla pandemia siano proprio i medici, i dirigenti delle strutture sanitarie e gli operatori del settore. E’ per queste ragioni che le associazioni di categoria hanno chiesto da tempo l’introduzione di uno scudo penale. “Nessuno di noi ha mai chiesto scudi giuridici per situazioni di colpa grave, e quindi di palese negligenza e incapacità. Ma qui ci siamo ritrovati in un’emergenza pandemica, con carenza di strutture, tecnologie, attrezzature e personale specialistico”, dichiara al Foglio Antonino Giarratano, vicepresidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione, terapia intensiva (Siaarti).

   

“In Lombardia – aggiunge Giarratano – molti nostri colleghi non sono tornati a casa per settimane. In alcuni ospedali si sono ritrovati ad avere in terapia intensiva in una notte venticinque pazienti con dodici posti e quindi a decidere a chi dare il ventilatore migliore. In alcuni casi i chirurghi e gli infermieri di psichiatria sono stati messi a seguire i pazienti ventilati perché non c’era personale specializzato. E’ chiaro quindi che in condizioni di pandemia e di emergenza non può trovare spazio il concetto di responsabilità diretta degli operatori sanitari applicato in condizioni normali. Se non ci sono mascherine, ventilatori, posti letto, infermieri e neanche linee guida, la colpa non può essere attribuita all’operatore sanitario”. Si rende quindi necessaria l’introduzione di uno scudo giuridico: “Se la colpa grave non fosse contestualizzata alle condizioni emergenziali in cui abbiamo lavorato, di fatto saremmo tutti colpevoli, e questo sarebbe improponibile. La legislazione attualmente vigente sulla colpa professionale deve quindi essere modificata affinché si tengano in considerazione le condizioni speciali che si sono verificate nel corso della pandemia”, conclude Giarratano.

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