Operazione antimafia dei Carabinieri e del Nucleo della Polizia Tributaria della Guardia di Finanza a Roma

Fermare la "mano visibile" delle mafie che banchettano sulla crisi

Riccardo Lo Verso

"Occorre mettere da parte lo sconfittismo a cui ci siamo condannati. Lo stato sta vincendo, ma per debellare le cosche bisogna intervenire sul contesto che le accoglie e adeguare le indagini", dice il prof Catino, sociologo alla Bicocca

L'emergenza sanitaria e il collasso economico comportano tre rischi. Che le mafie reclutino nuove leve fra chi ha perso il lavoro, che tendano una mano agli imprenditori in difficoltà e alla fine usino la stessa mano per strozzarli, che intercettino gli aiuti economici pubblici (nella speranza che arrivino in fretta).

 
In realtà, Maurizio Catino, docente di Sociologia dell'organizzazione presso l'Università di Milano Bicocca, individua un ulteriore rischio: “Stiamo guardando al presente con gli occhi del passato”. Lo dice alla luce dello studio che ha portato alla pubblicazione del volume “Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell'impresa criminale”, edito da Il Mulino. Il saggio (tradotto anche in inglese e giapponese) mette a confronto sette organizzazioni mafiose: tre italiane (Cosa Nostra siciliana, Camorra, ’Ndrangheta), Cosa Nostra americana, Yakuza giapponese, Triadi cinesi e Mafia russa, illustrandone l'architettura e mettendo in relazione i diversi modelli organizzativi adottati con i diversi usi della violenza.

  
Il titolo non cede al pessimismo. Se la mano dell'impresa criminale è “visibile” allora si può sperare che qualcuno la veda. Secondo Catino, servirebbe guardare la situazione da una prospettiva diversa: “Torniamo sempre ai fatti del '92, ma Cosa Nostra ha perso la sua centralità. Lo stato ha vinto, è evidente. Più di 450 condanne all'ergastolo per omicidi di mafia sono state comminate nel solo distretto di Palermo dal 1992 al 2006, mentre erano soltanto 9 nel primo maxiprocesso e circa una decina nei 100 anni precedenti. Tutti i boss più importanti sono morti o arrestati. Provano a riorganizzarsi, ma non ce la fanno per l'intervento di una fortissima azione repressiva. Oggi vedo in tanti osservatori una certa fatica nel riconoscere che Cosa Nostra non è più centrale, a differenza della 'Ndrangheta”.

  
Dalla teoria alla pratica. Catino affondano il suo ragionamento nella cronaca dei giorni nostri, segnati dal Coronavirus. Cita l'arresto, avvenuto a marzo, di Rocco Molè, figlio dell'ergastolano Girolamo, capo dell'omonima famiglia di Gioia Tauro. Nascondeva mezza tonnellata di cocaina sotto terra: “È la conferma che hanno disponibilità di liquidità. Fanno prestiti a usura per riciclare il denaro e impossessarsi delle attività commerciale. Il titolare del negozio non potrà più restituire i soldi”.

  
Dalla crisi del '29 alle ricostruzioni nel post terremoti, “le mafie hanno sempre approfittato delle situazioni di emergenza, divenute un'opportunità per infiltrarsi nell'economia legale. Comprano per pochi soldi imprese in difficoltà per intercettare i finanziamenti pubblici. Oppure aprono nuove aziende, li intestano a prestanome e poi chiudono. Non è una novità di oggi”.

 
Una novità, però, c'è e va tenuta in considerazione. “L'Organizzazione internazionale del lavoro – spiega Catino – stima una perdita di 25 milioni di posti. Un'occasione di reclutamento per le mafie. Si attiva il welfare criminale. Le organizzazioni arrivano prima dello stato. E fortificano la loro reputazione”.

 
Che fare dunque? “Innanzitutto monitorare i passaggi di proprietà. Capire chi sta comprando le aziende. Se sono state coinvolte le banche, bisognare responsabilizzare gli intermediari e le associazioni di categoria. Se una banca ha un cliente da 20 anni si accelera il prestito. Se si presenta un soggetto nuovo bisogna stare attenti”.

  
La recente inchiesta sulla capacità della famiglia mafiosa dei Fontana di Palermo di fare affari a Milano dimostra, però, che il sistema bancario e quello delle professioni non sono impermeabili alle infiltrazioni mafiose. Le segnalazioni per operazioni sospette, obbligatorie per alcuni professionisti, sono rarissime.

 
“Una ricerca di Transcrime, il centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità – aggiunge Catino – ha riscontrato che l'82 per cento dei mafiosi condannati dal 1983 ad oggi ha studiato dai 5 agli 8 anni. Se non ci fossero commercialisti, bancari, notai etc non riuscirebbero a fare niente. I mafiosi non sono in grado di aprire una partita Iva. Nel processo sulla presenza della 'Nndragheta in Emilia Romagna non è emerso un solo caso in cui sia stato il mafioso ad andare dal politico o dal professionista. Era il contrario”.

 
È la prospettiva investigativa che, secondo catino, va adeguata: “Il modello che conosciamo è stato vincente contro la mafia. La domanda è: le Direzioni distrettuali antimafia hanno al loro interno le competenze tecniche specifiche per leggere questi cambiamenti di strategie delle organizzazioni mafiose? Qualche anno fa si è scoperto che i Laudani di Catania facevano affari in Piemonte e Lombardia. Un brillante finanziere di Varese si è accorto di fatture false di 3, 4, 5 mila euro. Se avesse seguito il vecchio modello che cerca la droga o le armi non sarebbe servito a nulla. Invece si è capito che dietro quelle fatture c'era dell'altro”.

  
Catino è innanzitutto uno studioso di organizzazione e se “un'organizzazione si sviluppa in un territorio vuol dire che ha trovato nicchie ambientali ospitanti, si è integrato. La lotta contro chi sta all'interno delle organizzazioni è stata durissima e deve proseguire, ma è all'esterno che si deve guardare. Non si può essere tolleranti. I professionisti esterni ipotizzano cose che il mafioso non sa fare, non sa che i soldi possono passare dal Lussemburgo in Belgio e tornare in Italia. Senza i professionisti il mafioso terrebbe i soldi sotto il materasso”.

  
Ed è nel disastro economico causato dal Coronavirus che gli affaristi legati alle mafie potrebbero banchettare. Bisogna essere vigili, attenti, pronti e “mettere da parte lo sconfittismo a cui ci siamo condannati. Perché continuare a dire che abbiamo perso? Lo stato ha vinto. Ora è importante mettere a fuoco la questione. Il problema non è l'organizzazione in sé, ma il contesto che la accoglie. Se il dritto civile fa durare un processo sei anni, per riscuotere un credito l'imprenditore si rivolge alla mafia. Il diritto penale funziona e quello civile per le controversie? Diciamo che i mafiosi ancora oggi semplificano il lavoro”.

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