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Il boss Sacco torna in carcere. Un'altra figuraccia per i teorici della trattativa

Riccardo Lo Verso

Aveva ottenuto il differimento della pena e, subito, c'era chi aveva parlato di stato piegato alle pressioni della mafia. In realtà i magistrati hanno solo applicato la legge. Che esisteva già, prima dell'inutile decreto Bonafede

Il boss palermitano del rione Brancaccio, Antonino Sacco, è stato il primo della lista a rientrare in carcere. Il magistrato di sorveglianza gli ha revocato il differimento della pena grazie al quale, dal mese scorso, e fino al prossimo 9 luglio, aveva ottenuto la detenzione domiciliare. Non era tornato a casa sua, a Palermo, ma si trovava nel Nord Italia.

 

Sono stati anticipati i tempi sulla scia del nuovo decreto voluto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un decreto che, come spiegato al Foglio dall'ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, serve più che altro a “salvare la faccia” perché si limita a “stimolare i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere”. In particolare a “rivalutare la permanenza dei motivi legati all'emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall'adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile”. Ma ciò può avvenire anche prima qualora il Dap comunichi la disponibilità di una struttura carceraria con reparti sanitari adeguati per ospitare i detenuti malati. È il caso avvenuto per Sacco. Il carcere di Livorno può ospitarlo. Non c'è bisogno di aspettare il prossimo luglio.

 

Il boss torna in cella grazie a una semplice applicazione della legge. Gli restano da scontare cinque anni. È il primo della lista dei 376 scarcerati degli ultimi due mesi. Chissà se capiterà la stessa cosa ai detenuti gravemente malati per i quali l'emergenza Covid nulla c'entra con la concessione dei domiciliari. Perché c'è gente, condannata per mafia o in attesa di giudizio, finita dentro la lista dell'infamia, nel calderone dello scandalo a cui bisognava subito rimediare, che ai domiciliari ci sarebbe andata lo stesso.

 

Ma di questo poco importa. Il Guardasigilli può indossare di nuovo la divisa dell'antimafia dura e pura, quella dalla schiena dritta che non ha paura dei mafiosi e che tanto piace a una parte dell'opinione pubblica. I militanti grillini della prima ora possono esultare. 

Bonafede potrà vantarsi di avere detto la verità quando annunciava di volere riportare gli scarcerati di nuovo tutti dentro. E se alla fine non saranno proprio tutti tutti, si dirà che saranno comunque rientrati in carcere i più pericolosi. Se sono stati commessi degli errori la colpa sarà stata del solo Francesco Basentini, l'ex capo del Dap dove, ad onor del vero, la ricognizione che ha permesso di trovare la migliore collocazione per Sacco si sarebbe potuta fare prima. Basentini si è dimesso, acqua passata.

 

Eppure, nonostante il ritorno nella comfort zone di una certa giustizia, un tassello non si rimette a posto. Le scarcerazioni sono state bollate come la dimostrazione che lo Stato subisce sempre il giogo mafioso. Autorevoli voci dell'antimafia militante, magistrati, veterani del pentitismo sempre pronti a dire la loro, hanno sentenziato: la trattativa Stato-mafia, iniziata a cavallo delle stragi del '92, prosegue. Le scarcerazioni ne sono la prova.

 

Sacco torna in carcere e altri lo seguiranno. E ora? Che fine fa il canovaccio della narrazione trattativista e complottista? Chi trattava si è distratto, oppure è stato scoperto con le mani nella marmellata?

Sarà accaduto qualcosa che al momento sfugge a tutti. A cominciare dal ministro per proseguire con i nuovi vertici del Dap (il vice del Dipartimento è Roberto Tartaglia che è stato pubblico ministero nel processo palermitano insieme ad Antonino Di Matteo, l'ex pm ora al Csm che per primo ha rievocato la Trattativa ai tempi del Covid).

Non si butta via nulla, però. Basta aspettare, fra venti o trent'anni, tutto sarà più chiaro. E magari si potrà celebrare un nuovo processo.

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