La scuola di Milano guidata da Borrelli ha prodotto il degrado della politica

Paolo Cirino Pomicino

Molte persone poi risultate innocenti finirono in galera. Nessuno si indignò perché i tanti che pure potevano parlare erano intimiditi da un clima oppressivo e autoritario

Al direttore - Il tempo non solo è galantuomo ma spesso pone nello stesso momento avvenimenti che hanno il sapore del contrasto dal quale esce una verità diversa dalla vulgata corrente. Ci riferiamo all’enfasi quasi mitologica che circonda l’azione di Francesco Saverio Borrelli e l’ennesima assoluzione di Lillo Mannino dopo 25 anni di processi e due anni di galera e di sofferenze fisiche e psicologiche. Partiamo da quest’ultima notizia che dovrebbe indignare tutti per quanto ha fatto un gruppo di magistrati inquirenti a un uomo di stato e di governo con un tale accanimento che meriterebbe o uno psichiatra o una espulsione per manifesta incapacità, senza neanche pensare per un momento a un’attività dolosa. Venticinque anni sono una vita e solo chi ha una grande passione politica e una fede incrollabile riesce a resistere a una tale pressione accompagnata dalla gogna e da procedimenti amministrativi collaterali. Chi paga per tutto questo? E’ possibile che nel Terzo millennio vi sia ancora una piccola “enclave” di impunibili che non rispondono a nessuno, visto e considerato cosa è diventato da 25 anni a questa parte il Consiglio superiore della magistratura che peraltro non ha competenza in sede giurisdizionale? Nelle procure vi sono fior di galantuomini che sanno e vogliono cercare anche le prove dell’innocenza degli indagati, come la legge peraltro impone ai sostituti procuratori della repubblica, ma vi sono anche piccoli gruppi di inquirenti irresponsabili e spesso culturalmente violenti, per non dire parole ancora più forti.

 

Ebbene, pur nel rispetto che si deve sempre a chi non c’è più, la procura guidata da Borrelli fece scuola a queste minoranze attive dentro le procure di tutta Italia. Molte di queste si svegliarono dopo Milano ricorrendo agli stessi mezzi di arresti facili e pesanti intimidazioni. Se Milano mise per due mesi in galera Clelio Darida, già ministro della Giustizia, Franco Nobili, Franco Caltagirone e tanti altri poi risultati innocenti, nessuno si indignò perché i tanti che pure potevano parlare erano intimiditi da un clima oppressivo e autoritario. Quel clima fu la leva per cui un dilettante della politica come Silvio Berlusconi sconfisse la famosa macchina da guerra di Achille Occhetto, solo perché predicava libertà e serenità per tutti.

 

Le nostre possono apparire considerazioni frutto di risentimenti o di bizzarrie senili, ma così non è come sanno i tanti che ci conoscono, a cominciare da Antonio di Pietro. Siamo, invece, piuttosto delusi dai tanti opinionisti che ancora oggi non hanno il coraggio di capire o di dire cosa avvenne in quel biennio perché – forse – erano anche complici di quel clima a propria insaputa. Ma forse è giusto riferire di qualche episodio a testimonianza di quel che diciamo con animo sereno perché – come spesso osserviamo – il non avere risentimenti verso chicchessia è la chiave della felicità. Ma veniamo a qualche fatto. Nel decennale della morte di Guido Carli, insieme ad Andreotti andammo a Milano per commemorarlo. Nel momento in cui lasciavamo la sala si avvicinò un signore piuttosto alto che ci disse “ministro si ricorda di me?”. Lo guardammo gli dicemmo di no, scusandoci della scarsa memoria. La persona rispose “lei non si deve scusare perché non mi conosce, ma secondo il dottor Di Pietro io le avrei dato 400 milioni e sono io a chiederle scusa perché per uscire dal carcere ho dovuto confermare patteggiando la pena. Sono Araldi, vicepresidente della Padania Assicurazione”. Ecco la scuola di Milano e come per i politici i capi hanno una responsabilità oggettiva sempre.

 

Saremmo ingiusti, però, se non dicessimo che all’interno del pool di Milano c’erano personalità diverse e comportamenti altrettanto diversi che non riuscivano però a imporsi o per la giovane età o perché ammalati e stanchi. I nomi non ci interessano, così come non ci interessa che una sera il brigadiere Scaletta (se la memoria non mi tradisce) mentre parlavamo ci confidò che di lì a qualche giorno sarebbe stato arrestato un pezzo da novanta dell’economia del paese perché a suo carico c’era un poderoso e inattaccabile dossier della Guardia di finanza. Grazie a Dio quella previsione non si verificò. Ma qualche anno dopo fummo chiamati come persona informata dei fatti da un pm di Perugia che voleva arrestare la stessa persona indicata dal brigadiere Scaletta. Di questo avvertii un autorevole amico di questo pezzo da novanta che subito si dimise dal suo prestigioso incarico e la cosa finì in cavalleria per la pm che prima fu chiamata al ministero della Giustizia e poi fu pregata di candidarsi al Senato della repubblica. Se evitiamo di far nomi oggi è per non concorrere a rimestare odi e rancori, ma solo per dire che anche questa era la scuola di Milano del brigadiere Scaletta. Anche questo è un frutto di quella minoranza attiva di Milano. Spiace dirlo, ma frutti velenosi di quel tempo sono l’attuale degrado della politica, la sua inadeguatezza e la sua incultura. Certo, anche noi abbiamo avuto responsabilità per non aver detto a suo tempo al paese che la politica aveva bisogno di risorse perché la democrazia liberale potesse mettere radici permanenti. Ma quelle risorse dovevano essere date alla luce del sole come avviene negli Stati Uniti, contrastando quella cultura cattocomunista secondo cui il denaro è lo sterco del diavolo, per cui se uno dava un contributo elettorale veniva subito individuato come un corruttore e il politico o il partito come un corrotto.

 

La responsabilità di quel silenzio ce la portiamo dietro da sempre perché a quel finanziamento della politica democratica battezzato come corruzione corrisponde oggi una corruzione ben più grave e devastante, quella politica legata alla sua inadeguatezza, al suo autoritarismo, al suo bullismo e alla sua personalizzazione. Mai come oggi allora resta attuale quell’appello che nel 1919 lanciò Luigi Sturzo ai liberi e ai forti per voltare pagina e rilanciare una politica alta al servizio di un paese che non merita né l’isolamento internazionale né la comicità di un movimento senza arte né parte.