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Mani bucate

Una cadenza di martelli giudiziari: l'ingegnosa repubblica di Walter Jens

Guido Vitiello

Distopia letteraria anni Cinquanta. Di utile rilettura

Quando in Italia si instaurò la Repubblica giudiziaria, la letteratura ammutolì. Qualche editore maramaldo pensò bene di blandire i sanculotti con i classici: brani dall’Apologia di Socrate e dal Critone furono stampati con il titolo “Mani pulite” e distribuiti, come in una sorvolata dannunziana, sui banchi del Parlamento degli inquisiti. Qualcun altro, all’apparenza più coraggioso, ristampò un romanzo del 1961, “L’inquisito” di Giorgio Saviane, ma con quali cautele ecclesiastiche! C’era l’introduzione pastorale di un procuratore, e una nota in sanbenito dell’autore, ansioso di precisare che i moderni inquisiti non meritavano l’“aureola del perseguitato” del suo protagonista. Il Corriere della Sera chiese a otto poeti di cimentarsi con l’attualità: c’erano Luzi, Raboni, Giudici, Volponi, Zanzotto, Spaziani, Zeichen, e soprattutto c’era Dacia Maraini, che accusava i politici corrotti di non saper distinguere “tra un cuore spezzato di lattuga e il piedino di un neonato”. Nessuno le inviò un avviso di garanzia per corruzione della lingua poetica.

  

Altri sarebbero stati i libri da riproporre, e uno più di tutti: “No. Il mondo degli accusati”, un romanzo di Walter Jens del 1950 tradotto quattro anni dopo per le edizioni A.P.E. di Milano e mai più riscattato dalla dimenticanza. Se qualcuno vi parlasse di un incubo sospeso tra Kafka e Orwell pensereste, a ragione, che sta facendo name dropping anche piuttosto banale. Eppure, per il romanzo di Jens, si tratta di una precisa indicazione topografica. In questa sorta di contro-repubblica platonica, un Giudice Supremo è al vertice di una società gerarchicamente divisa in tre classi. “Fino ad oggi”, dice il Giudice al protagonista, “hai ignorato che al mondo non ci sono più che accusati, testimoni e giudici. Così abbiamo deciso che sia e così sarà sempre. D’altra parte, noi non abbiamo inventato nulla; abbiamo soltanto elevato a principio quello che, pur dissimulato, è esistito da sempre. Ci è voluto del tempo, dato che molti sistemi escogitati da piccoli, stolidi borghesi, dovettero essere eliminati, prima di giungere a questo a cui noi siamo arrivati”.

 

Le tre classi non hanno l’impermeabilità delle caste, anzi il passaggio dall’una all’altra è l’unica forma di mobilità sociale, e il ricettacolo di ambizioni risentite. “Anche dopo scontata la pena, l’Accusato resta nella sua condizione d’Accusato, perché, come ho già detto, è segnato. Tuttavia, adoprandosi con buona volontà, può anche elevarsi fino a giungere al grado di testimonio; ma ciò avviene soltanto quando riesca a denunziare qualcun altro”. Rimesso in libertà, l’Accusato è un pericolo per tutti, e specie per il suo testimone accusatore, che rischia di essere ricacciato in basso, in un’altalena a carosello inquisitoria. Ma chi si mantiene abbastanza a lungo nella classe dei testimoni può aspirare a diventare giudice: “Vi sono, è vero, meno accusati tra i giudici che nelle altre classi, perché, infatti, da più tempo nel Corpo dei Giudici si è venuta costituendo una certa solidarietà. Nessuno, però, ambirebbe tanto, come ambisce, di divenire alto funzionario o Giudice, se per poco conoscesse i pericoli a cui, in questa sua qualità, si espone. Ma li ignorano!”.

 

Il Giudice Supremo è l’unico a conoscere la natura dell’ingranaggio sociale: una macchina costituita da due nastri d’acciaio, l’uno di fronte all’altro; nel primo sono praticati miliardi di incavi, sul secondo sono applicati altrettanti piccoli martelli che, al chiudersi di un circuito, battono su quegli incavi. “Ebbene, fai conto che questi miliardi di incavi siano gli uomini. Accusare un uomo non sarà, dunque, che stabilire un contatto e far cadere un martello”. La descrizione sfocia su una spaventosa visione metafisica: “Questa è la vita, amico mio. Cadenza di martelli che battono e incavi aperti a riceverli. La storia non è che questa cadenza di martelli”.

 

Ingegnoso macchinario, vero? Ma capita a volte che la fantascienza, dopo qualche decennio, diventi letteratura realistica, perché da qualche parte qualcuno ha davvero messo in atto le sue immaginazioni. Se un editore italiano si arrischiasse a ristampare il romanzo di Jens, magari senza l’imprimatur di un procuratore, in quale scaffale dovremmo collocarlo?

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