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Una “tempesta emotiva” di gelosia attenua l'omicidio? No, è una fake news

Ermes Antonucci

Polemiche per la sentenza della Corte d’assise d’appello di Bologna che ha quasi dimezzato la pena a un uomo reo confesso di aver ucciso una donna. Ma la realtà è diversa da come è stata raccontata

Sta facendo molto discutere una sentenza pronunciata dalla Corte d’assise d’appello di Bologna che ha quasi dimezzato la pena a un uomo reo confesso dell’omicidio di una donna conosciuta appena un mese prima. Secondo quanto riportato dagli organi di informazione (in maniera molto semplicistica, come vedremo), i giudici avrebbero deciso di ridurre la pena da 30 a 16 anni nei confronti dell’uomo affermando che una “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia può attenuare la responsabilità di chi uccide. Contro la sentenza si è immediatamente scatenata sui social un’ondata di indignazione (con anche insulti di ogni genere nei riguardi dei magistrati), e subito sono arrivate anche dure prese di posizione da parte di esponenti della politica, dal Pd a Forza Italia, passando per il Movimento 5 Stelle. In particolare, proprio i senatori e le senatrici del M5s che compongono la commissione d’inchiesta sul femminicidio hanno dichiarato che “è gravissimo oltre che inaccettabile che nel 2019 la sentenza di un tribunale consideri la gelosia sotto le mentite spoglie di una ‘tempesta emotiva’ un’attenuante per l’omicidio di una donna”, aggiungendo che in questo modo “si ritorna al delitto d’onore”. Anche il ministro per la Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, ha parlato di “ritorno al passato”. E’ vero? I giudici di Bologna hanno spalancato le porte al ritorno del delitto d’onore? Basterebbe leggere la sentenza in questione per comprendere che non è così.

 

Innanzitutto, nella sentenza i giudici della Corte d’assise d’appello di Bologna affermano di condividere la valutazione fatta dal giudice di primo grado (il gup in rito abbreviato) sulla sussistenza dell’aggravante dei futili motivi, specificando che tra quest’ultimi rientra proprio lo stato di gelosia in cui si trovava l’omicida. Ricordando la giurisprudenza della Cassazione, i giudici scrivono: “La manifestazione di gelosia può non integrare il motivo futile solo qualora si tratti di una spinta davvero forte dell’animo umano collegata ad un desiderio di vita in comune: costituisce, invece, motivo abietto o futile quando sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l’insubordinazione”.

 

La Corte ritiene che si sia di fronte proprio a quest’ultimo caso. I soggetti si conoscevano da poco più di un mese e avevano anche continuato a vivere a casa propria. Ogni moto di gelosia nell’uomo, stante questa situazione, non poteva che ritenersi “privo di alcun fondamento”. L’omicidio, dunque, è stata “espressione di un intento meramente punitivo” dell’uomo nei confronti della donna, ed è così da ritenersi sussistente l’aggravante dei futili motivi. In definitiva, la gelosia è stata considerata un’aggravante dell’omicidio.

La novità del giudizio di appello è che questa riconosce diverse circostanze attenuanti generiche che erano state invece negate in primo grado, ritenendole inoltre equivalenti alle aggravanti (quindi annullando quest’ultime nel calcolo della pena).

 

La Corte d’assise d’appello di Bologna riconosce come attenuante, ad esempio, il fatto che l’uomo abbia confessato: non solo l’omicidio, ma anche i futili motivi che lo hanno spinto a uccidere la donna, che costituiscono un’aggravante che “verosimilmente non sarebbe stata contestata se egli non avesse parlato della sua gelosia e delle discussioni nell’ultimo fatale incontro”. Costituisce, poi, un’attenuante anche il fatto che l’uomo abbia cominciato a risarcire la figlia della vittima, un comportamento che “lascia intravedere una presa di coscienza dell’enormità dell’azione compiuta”.

Oltre a queste, i giudici riconoscono un’altra attenuante (quindi non l’unica) nel forte stato di gelosia, che seppur “certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato”, determinò in lui quella che “il perito descrisse come ‘una soverchiante tempesta emotiva e passionale’, che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio”. Si tratta, scrivono i giudici, di “una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”.

 

Sul punto sono necessarie due osservazioni. Primo: non siamo di fronte a un’interpretazione nuova e fantasiosa delle norme. I giudici di appello, infatti, fanno riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (ribadita, ad esempio, dalla sentenza n. 7272 del 2014), secondo cui “gli stati emotivi o passionali, pur non escludendo né diminuendo l’imputabilità, possono essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto essi influiscono sulla misura della responsabilità penale”. Insomma, non c’è nessuna rivoluzione del diritto e nessun ritorno nel passato.

Secondo: quella in questione costituisce solo una delle tante circostanze che hanno indotto i giudici a riconoscere le attenuanti equivalenti all’imputato. La Corte d’assise d’appello di Bologna, cioè, avrebbe abbassato la pena all’uomo anche se non avesse considerato l’attenuante dello “stato emotivo”, che comunque si muove nel solco di un’affermata giurisprudenza della Cassazione.

Non solo. Si può ritenere che se fosse esistita solo quest’unica attenuante (e quindi l’uomo non avesse né confessato i futili motivi né mostrato di aver preso coscienza della gravità del proprio gesto), i giudici avrebbero certamente considerato le aggravanti prevalenti sulle attenuanti, non riducendo la pena.

 

Proprio in virtù del riconoscimento delle diverse attenuanti equivalenti (negate in primo grado), i giudici di appello hanno rideterminato la pena a 24 anni di reclusione, ridotta poi di un terzo per il rito abbreviato, a 16 anni.

In definitiva, anche stavolta (come nel caso della sentenza sullo stupro nei confronti di una donna ubriaca) pur di cercare il titolo ad effetto gli organi di informazione hanno semplificato i contenuti della sentenza fino a tal punto da distorcerne i contenuti, ben più complessi. E i commentatori politici, nella loro propaganda, ci sono cascati in pieno.

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