Nicola Abbagnano

Rosanna Panelli Marvulli: Abbagnano, una vita per la filosofia

Davide D'Alessandro

A colloquio con la storica segretaria del grande filosofo, autrice del libro edito dalla Utet: "Diceva di essere 'troppo filosofo per non accettare la morte come conclusione inevitabile di ogni esistenza individuale'. Inoltre, al suo ragionato rifiuto del pessimismo, il filosofo aggiungeva di non temerla 'e continuo a non temerla, perché fa parte dell'esistenza. Noi non possiamo vivere aspettando la morte, indagando sul significato della morte. Nell’attesa della morte, che non sappiamo quando arriverà, bisogna amare la vita, vivere per la vita'. Sono anche stata testimone di tanti suoi atteggiamenti di malcelato sconforto o di irrequietezza, forse sconosciuti ad altri, causati da difficoltà nella prosecuzione del lavoro. E non nascondo che molte volte, recependoli, ne diventavo quasi inconsciamente partecipe, cercando di alleviare l’impatto che potevano avere su di lui"  

Com’è nata l’idea del libro?

Per varie ragioni. In primo luogo, per assolvere il mio debito di riconoscenza verso il filosofo Nicola Abbagnano e la seconda moglie Marian Taylor, che hanno stimolato la mia formazione professionale affidandomi lavori e incarichi di responsabilità. In secondo luogo, per il desiderio di contribuire - seppure certamente in minima parte - a mantenere vive la figura del filosofo e le sue opere. In terzo luogo per il mio senso di gratitudine verso Gigliola, la terza moglie, per avermi voluta ancora accanto a sé dopo la vedovanza, dal 1990 in poi, nel condividere fiduciosamente tanti eventi, e trascorrendo insieme anche piacevoli momenti confidenziali. “…Ma tu potresti essere la mia sorella più piccola”. Questa era la frase che ogni tanto amava ripetere, e che ci teneva affettuosamente vicine l’una all’altra. In quarto luogo, dall’esigenza di non disperdere i tanti documenti di un mio archivio personale accumulati negli anni di collaborazione, altri che la seconda moglie, Marian Taylor, mi aveva consegnato poco prima della sua morte, altri ricevuti dal filosofo al momento del suo trasferimento a Milano nel 1972, e altri ancora da Gigliola. Tantissimi di questi documenti non hanno trovato spazio nel mio saggio, ma è mia intenzione catalogarli in previsione di una loro futura pubblicazione.

Chi è stato e chi continua a essere Nicola Abbagnano?

A questa domanda penso potrebbero rispondere quelle numerose migliaia di studenti che in passato hanno  scelto l’ “Abbagnano”, in alternativa ad altri testi come loro “compagno di studi”. La chiarezza e rigorosità dominanti dei suoi scritti può forse averli aiutati anche a capire il senso della propria esistenza e a indirizzarla nel migliore dei modi. Le sue lezioni frontali, che in tanti ricordano come ricche di spiegazioni sistematiche, brillanti per dottrina, sono così descritte da Fernanda Pivano nel suo libro I miei quadrifogli: “Quanto era bravo a far diventare chiare le cose difficili, astruse, incomprensibili. Diceva che a insegnargli a essere chiaro era stato il suo maestro di Salerno, Aliotta, e ricordo ancora, come se fosse ieri, una lezione sul Sofista di Platone spiegato con minuscoli grafici sulla lavagna, che aveva reso il dialogo forse più difficile della storia greca un giochetto da bambini”. Alla seconda parte della domanda è facile rispondere: Abbagnano continua a essere ciò che è stato e certamente lo sarà ancora per il futuro, soprattutto perché i suoi manuali scolastici, editi da Paravia,  e la Storia della filosofia e il Dizionario di filosofia, edite dalla UTET, hanno trovato nuova vita grazie ai costanti aggiornamenti del suo ultimo allievo e continuatore delle opere storiche, Giovanni Fornero.

Che cosa intende Franco Ferrarotti quando definisce Abbagnano un uomo greco in via Po?

Un greco in Via Po. Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano, è il titolo dell’agile libretto dove Ferrarotti mette con queste parole l’accento su un tratto della personalità del filosofo, generato dagli eventi dolorosi della sua vita: “Nicola Abbagnano aveva imparato per tempo a rinunciare, in parte almeno, alla vitalità in favore della serenità, all’emotività anche geniale per restare fedele all’imperativo della misura. In questo senso era un greco nell’accezione classica del termine, un greco apollineo e imperturbato più che dionisiaco”. Ferrarotti conosceva Abbagnano, sin da quando da giovane studioso aveva trovato in lui un’àncora di salvezza. Nel 1949, a Palazzo Campana, dove la Facoltà di Lettere si era rifugiata dopo le bombe cadute sulla sede di Via Po,  egli aveva presentato la sua tesi su Thorstein Veblen ad Augusto Guzzo, che però si era rifiutato di firmarla. Lo fece Abbagnano. Mi piace ricordare qui la grande amicizia, quasi fraterna e permeata di empatia, che legava Abbagnano a Ferrarotti, rafforzata dalla grande affinità intellettuale concretizzatasi nel 1951 con la fondazione della rivista “Quaderni di sociologia”, prima rivista italiana di sociologia quando in tutta Europa erano presenti solo quattro o cinque riviste di sociologia.

Che cosa vuol dire lavorare per oltre quarant’anni come sua segretaria?

Vuol dire aver dedicato un lungo pezzo importante della mia vita a un’esperienza indimenticabile, e ahimè… ormai irripetibile! Quarant’anni, o quasi, di intenso lavoro trascorsi accanto al filosofo, densi di continue lezioni di vita sul come dare un senso alla propria esistenza di fronte anche, e semplicemente, agli avvenimenti di tutti i giorni, cogliendone gli aspetti positivi ed evitando di enfatizzare quelli negativi. Lunghi periodi di lavoro durante i quali alcune volte ho percepito più acutamente i suoi stati d’animo - in particolar modo nei circa dieci anni dedicati alla scrittura del Dizionario di filosofia - attraverso comportamenti, toni della voce, pause e silenzi. Sono anche stata testimone di tanti suoi atteggiamenti di malcelato sconforto o di irrequietezza, forse sconosciuti ad altri, causati da difficoltà nella prosecuzione del lavoro. E non nascondo che molte volte, recependoli, ne diventavo quasi inconsciamente partecipe, cercando di alleviare l’impatto che potevano avere su di lui.

Senza Abbagnano la filosofia ovviamente ci sarebbe lo stesso, ma non ci sarebbero la straordinaria “Storia della filosofia” e il grandioso “Dizionario”. Come li concepì, perché e che cosa hanno rappresentato quelle opere nella sua vita?

Prima di tutto voglio ricordare che se nei primi anni dopo la guerra non ci fosse stato un incontro casuale tra Abbagnano e Carlo Verde, professore di filosofia poi divenuto nel 1920 direttore della casa editrice UTET, queste due grandi opere nate da uno specifico invito di Verde, forse non avrebbero trovato posto nel prestigioso catalogo. Un incontro che nel corso degli anni li aveva portati a travalicare i limiti del rapporto di lavoro creatosi tra loro due, dando vita a una solida e profonda amicizia. Per la stesura della Storia, avvenuta senza la collaborazione di altri studiosi, il filosofo si era preparato a lungo, prima con le vaste letture e gli studi specifici del periodo napoletano poi, tra il 1937 e il 1945, con la stesura del Sommario di filosofia per i licei, del Sommario di filosofia e pedagogia per gli istituti magistrali, e poi ancora dell’Antologia del pensiero filosofico e del Compendio di storia della filosofia. L’opera viene pubblicata tra il 1946 e il 1950, consacrando Abbagnano come grande storico della filosofia. Il Dizionario di filosofia, che è stata  la sua opera prediletta, scritta in un periodo di forte e piena maturità intellettuale, dall’inizio degli anni ’50, segna il culmine del suo sforzo di chiarificazione dei principali concetti filosofici, privandoli della polvere ideologica che li aveva ricoperti nel tempo, e rendendo comprensibile il significato dei termini. Quelle due grandi opere hanno rappresentato per lui la concretizzazione di un progetto che racchiudeva in sé tutta la sua vocazione di filosofo.

Esiste Abbagnano senza Torino?

Abbagnano senza Torino? Non è possibile! In questa città lui ha trascorso anni difficili per questioni personali, e anni di duro lavoro per raggiungere i traguardi che si era prefissato sin dalla gioventù, come racconta nel suo libro Ricordi di un filosofo. La sua impronta culturale emerge continuamente nei più disparati ambiti. Solo nella toponomastica è assente. Così però non è per quella di Milano, Roma, Senigallia, Porto Cesareo, Caserta.

Quanto è stata importante Marian Taylor, la seconda moglie, nella vita del professore?

Marian Taylor, statunitense, ma di origine britannica, incontrata a Bellagio nel 1944, reduce da studi umanistici compiuti a Parigi, ha avuto un ruolo fondamentale nella sua vita di studioso, aiutandolo anche nel portare a compimento numerose opere, alcune pubblicate dalla casa editrice Taylor, fondata da lei nel 1947. Senza la sua condivisione di ogni progetto, e l’attenzione tesa a creargli serenità in ogni momento, sottraendolo a ogni evento disturbatore durante il suo lavoro, molto probabilmente il filosofo non avrebbe potuto raggiungere quei risultati. Di lei Abbagnano, in un’intervista rilasciata a Giuseppe Barigazzi per il settimanale “Gente”, rammentando il suo primo infelice matrimonio con Rosa Del Re, affetta in seguito da disturbi psichici, e la sua morte, dice: “Marian Taylor, americana, bella e intelligente, fu invece per me una donna ideale. Ho capito vivendo con lei quanto sia importante per un uomo avere accanto a sé una donna che sia affine, lo comprenda e lo completi.”

Dopo la morte di Marian Taylor, il professore incontra Gigliola e si sposa di nuovo. Con quale trasporto?

Dopo la morte della moglie Marian, Abbagnano sembrava volersi isolare dal mondo, per dedicare attenzione solo al lavoro. Un incontro casuale a Santa Margherita Ligure aveva poi dato una svolta fondamentale alla sua vita, portandolo in seguito a dire: “Pensavo di non risposarmi. Invece ho incontrato Gigliola, ed è un’altra storia bellissima”. Così Abbagnano ricorda quell’unione che li ha tenuti fortemente legati per quasi vent’anni.

Che cosa mi dice del sodalizio intellettuale con Norberto Bobbio?

Il loro sodalizio intellettuale aveva preso avvio sin dal 1936, quando Abbagnano era arrivato a Torino dalla natia Salerno, per il suo primo incarico nella Facoltà di Magistero e poi con l’insediamento nella cattedra di Storia della filosofia nella Facoltà di Lettere. Durante i loro incontri al Centro di studi metodologici, costituito nel 1947 sotto lo stimolo di Ludovico Geymonat, si erano scoperti accomunati nell’interpretazione del sapere scientifico e nel progetto di riformare la filosofia sul modello della scienza.  Anche se avevano percorso itinerari culturali diversi, e pur essendo separati dalle diverse posizioni assunte nei confronti dell’esistenzialismo, erano uniti da una intensa collaborazione a iniziative comuni, arricchita da una autentica amicizia, rinsaldata dalla condirezione quasi trentennale della prestigiosa Rivista di filosofia pubblicata dalla Taylor.

Che significato attribuiva alla politica?

Abbagnano, benché di spirito liberale, era lontano dalla politica, ma non per questo se ne disinteressava totalmente. Già nel lontano 1971 il filosofo, all’interno di un’intervista di Emilio Isgrò per il “Tempo”,  si esprimeva così in merito alla classe politica dell’epoca: “Non abbiamo una classe politica. Basta sentir parlare i nostri uomini politici: generalità, banalità, mai cose concrete. Dissertano di ‘libertà’, di ‘eguaglianza’, di ‘aperture’, di ‘chiusure’. Promettono di smuovere le montagne, ma non precisano mai con quali mezzi e in quanti anni. Direi che la nostra classe politica non è una classe di realizzatori, ma di metafisici nel senso peggiore del termine. Non si salva nessuno, né a destra, né a sinistra. E si capisce: occultare i problemi veri, mistificare la realtà, è la tecnica migliore per mantenersi al potere il più a lungo possibile. Per questo ci si serve di mezzi che non affiorano mai completamente alla luce: anche della mafia”. Nel 1985 gli si era presentata però l’eventualità di essere coinvolto nella politica, e su invito di Egidio Sterpa e Valerio Zanone, aveva accettato di andare a ricoprire per il PLI la carica di assessore alla cultura per il Comune di Milano, portando la sua visione filosofica che non lo aveva mai estraniato dai problemi sociali.

Avremmo continuato ad avere Abbagnano senza Giovanni Fornero?

Certamente, anche se bisogna dire che, per quanto riguarda le opere storiche, gli aggiornamenti di Fornero sono stati indispensabili e utili a mantenere vivo il nome di Abbagnano nelle scuole e nelle università. Ricordo che era stato Abbagnano stesso a indicare agli editori il nome di Fornero.

Con quale atteggiamento Abbagnano visse il dolore delle perdite familiari?

Abbagnano rammentava che Schopenhauer sosteneva che la vita è prevalentemente dolore e va affrontata con consapevolezza. Forse per questo le sue manifestazioni di dolore, per la perdita di persone a lui care, erano state sempre dignitose e riservate. Il dolore per la morte della seconda moglie Marian era  stato il più grande, e in tanti  momenti delle mie sedute di lavoro con lui, in una greve atmosfera di tristezza, ne percepivo l’intensità unita alla nostalgia per l’assenza del suo affaccio alla porta dello studio, come era solita fare con sul viso sempre un amabile sorriso, accompagnato dal richiamo verso suo marito, “Nick”, che lei pronunciava con accento fortemente americano. A distanza di pochi mesi dalla morte della moglie, un altro dolore aveva colpito Abbagnano: la morte di Pietro Chiodi, valoroso protagonista della Resistenza e suo collega, verso il quale nutriva affetto fraterno.

Abbagnano “giornalista” è meno rilevante del filosofo?

La rilevanza di ciò va posta su due piani diversi, perché i suoi manuali scolastici, le grandi opere e i numerosi scritti costituiscono la trama di un percorso intellettuale dedicato allo specifico studio della filosofia, e la sua divulgazione. Per contro, invece, l’attività svolta scrivendo per diversi quotidiani o settimanali, aveva dato al filosofo la possibilità di mettere il suo pensiero al servizio di un pubblico più vasto, avviando un discorso cattedratico reso però quasi simile a una cordiale conversazione. La scelta di portare la filosofia “tra la gente”, come lui stesso amava ricordare, consentendo la comprensione del significato di concetti e parole, diceva essere “il coronamento ideale della mia carriera”. Scelta che però, negli anni ’70, non aveva mancato di suscitare qualche perplessità nel mondo accademico, come ha scritto Stefano Zecchi su “Il Giornale” nel 2010: “Un accademico che scriveva su un quotidiano o su un settimanale era considerato con il più profondo disprezzo dal corpo docente dell’università, una specie di pecora nera che si svendeva alla banalità della comunicazione giornalistica”.

Lei continuò a lavorare per il filosofo anche quando si trasferì a Milano. Come visse il passaggio dopo i tanti anni torinesi?

Passaggio non traumatico, perché grazie alla continuità dei miei rapporti con lui, telefonici, epistolari, o di incontri a Milano, io non ho vissuto un “distacco” totale. Sono continuati quelli di lavoro relativi ad alcune sue pubblicazioni, e quelli relativi alla mia gestione a Torino della sua casa editrice Taylor, con la cura anche delle due prestigiose riviste “Quaderni di sociologia” e “Rivista di filosofia”, delle quali lui era condirettore. Ma esistevano anche rapporti più personali, nati sin da quando era stato testimone alle mie nozze e poi padrino di battesimo per mio figlio Nicola. Per lui Abbagnano, padre infelice di due figlie segnate da instabilità mentale, aveva un grande affetto.

Qual’era il suo pensiero sulla morte?

Diceva di essere “troppo filosofo per non accettare la morte come conclusione inevitabile di ogni esistenza individuale”. Inoltre, al suo ragionato rifiuto del pessimismo, il filosofo aggiungeva di non temerla “e continuo a non temerla, perché fa parte dell'esistenza. Noi non possiamo vivere aspettando la morte, indagando sul significato della morte. Nell’attesa della morte, che non sappiamo quando arriverà, bisogna amare la vita, vivere per la vita”.  

Qual è stato l’ultimo messaggio, l’ultimo biglietto del professore per lei?

Tra le tante lettere ricevute, l’ultima, e che mi è molto cara insieme alle affettuose dediche su libri o fotografie, è questa, datata 28 maggio 1990, scritta pochi mesi prima di morire: “Mia cara Rosanna, ti sono sempre grato del tuo aiuto che continua quello che mi hai dato per tanti anni nel mio lavoro a Torino. Mando un caro saluto a tuo marito e a tuo figlio. Ti abbraccio con affetto, tuo Nicola”. Una lettera emblematica. Quasi un addio.