Maurizio Balsamo

Maurizio Balsamo, un nuovo inizio

Davide D'Alessandro

A colloquio con l’analista di formazione freudiana, che spiega: “L’analisi è libertà di ricominciare un tragitto rimasto interrotto. Allo stesso tempo però essa apre all’acquisizione soggettivante di tutte le necessità che hanno contrassegnato la nostra storia e che ne hanno caratterizzato le traiettorie destinali, gli esiti, le domande, come ciò che abbiamo dovuto lasciare a margine o che gli altri ci hanno consegnato, come mandato, obbligo, prospettiva”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

Credo che valga la pena, ancor oggi, per dire che cosa è la psicoanalisi, di utilizzare la definizione datane da Freud nel 1922 “1) un procedimento per l’indagine dei processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere; 2) un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3) una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica”. Una definizione che include, come si può scorgere, processo di cura, conoscenza della realtà psichica, costruzione di un metodo scientifico che procede per inserzioni progressive, estensioni in altri campi del sapere resi interrogabili dalla natura delle qualità psichiche e, nella dimensione specifica di questo sapere, la sua premessa fondamentale: la realtà dell’inconscio. Evidentemente, si può piegare questa definizione freudiana in molti modi, privilegiando ora un aspetto, ora l’altro, scegliendo come vertice principale quello della conoscenza trasformativa del soggetto, quello dell’ascolto della voce degli affetti, la realtà primaria dell’inconscio e ciò che ne consegue. A mio avviso però ogni scelta non solo definisce l’area di appartenenza teorico-geografica degli psicoanalisti ma istituisce specifici vertici di ricezione-trasformazione della teoria, indica agglomerati identitari, proposte cliniche. La ridefinizione insomma della psicoanalisi orienta uno specifico campo di forze, una geopolitica e un posizionamento strategico a volte di scuola, a volte di resistenza all’inconscio stesso. Come ha osservato una volta Laplanche, la teoricogenesi ripete, ricapitola, riassume la storia dei movimenti inconsci soggettivi, determinando così una storia e una dinamica inconscia della teoria, con le sue resistenze, le sue scissioni, le sue rimozioni. Determinare il “a che serve” dell’analisi, indicherà, conseguentemente, non solo la nostra teoria e il nostro specifico rapporto a esso, ma le visioni del mondo dell’analista, le sue particolari idiosincrasie, il suo modo di lavorare, il rapporto col suo controtransfert allargato (verso i colleghi, le scuole di appartenenza o contro cui combatte e così via). A ogni modo, per me, essenzialmente, un’analisi è la possibilità di ricominciare, di riscrivere la propria storia, di riaprire un destino per introdurre il campo del possibile: è un nuovo inizio.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Avevo scelto di diventare psichiatra e il mio interesse per la psicoanalisi mi portò immediatamente alla scelta di iniziare un’analisi personale. Ovviamente questo era solo un utile lasciapassare per accettare la possibilità di affidarmi a uno sconosciuto cui confidare gli enigmi o le questioni che albergavano in me, più o meno velatamente, più o meno apertamente.

Come scelse i suoi analisti?

La mia prima analista mi fu consigliata da un mio docente di psichiatria, e il nome a cui rivolgermi per la mia seconda analisi, all’epoca denominata “ didattica”, da lei. In entrambi i casi sono stato enormemente fortunato e devo moltissimo a loro due. Due stili di lavoro in parte convergenti, in parte diversi, con cui ho ritagliato molti anni della mia vita e del mio essere.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Intanto un lungo lavoro su di sé. Un lavoro che tenda non solo alla conoscenza e alla presa in carico delle proprie questioni, per poterne fare qualcosa, assumere il proprio dolore, diminuendo le quote di persecutorietà, di diniego, di scissione che albergano nella mente  di ciascuno di noi, ma che proprio per questo permetterà la deidealizzazione della credenza in un metodo che possa condurre alla costruzione di un “ottimo” analista. Non ritegno che la trasmissione della psicoanalisi sia mai stata interessata alla formazione di “ottimi” analisti che diventerebbero poi, abbastanza facilmente, dei totem di sé stessi, oggetti inutilizzabili. L’idealizzazione finisce sempre per impedire l’utilizzo fecondo  di un’altra mente, espropriando il soggetto delle sue capacità creative. Inoltre, l’ottimo, in tal senso, assume un valore identitario scarsamente lavorabile, sottratto nella sua assunzione, alla realtà dei processi inconsci, alle traversie che impongono a ogni analista di riconoscere il lavoro, ma anche il combattimento, con le proprie difese, con i propri resti, con le proprie questioni. Un ottimo analista sarebbe, tendenzialmente, un analista che ha regolato ogni conto col suo inconscio. Prospettiva irrealistica, oltre che mortifera.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

La babelizzazione della psicoanalisi  è una realtà presente già in ogni scuola, dove si possono trovare numerose e divergenti teorie che si articolano o confliggono fra di esse. Personalmente ho avuto una formazione di grande dialogo coi nodi e le articolazioni teoriche della psicoanalisi che mi hanno, credo, concesso di realizzare una mia personale libertà di movimento. Ho iniziato, appena laureato, a lavorare in un centro di psicologia infantile ad orientamento kleiniano, ho fatto parte del Pollaiolo (ad orientamento bioniano, per molti anni), ho fatto un dottorato in Francia e ho lavorato con il gruppo di Laplanche, ho poi incontrato André Green. Leggo Winnicott con grande interesse, così come tanti altri autori. Ovviamente questa libertà nasce anche dall’aver incontrato degli analisti che pensavano con me piuttosto che con la o le teorie di riferimento, pur avendone di precise, ovviamente. Il problema della scuola nasce nel momento in cui essa assume un vertice come l’unico possibile e il sapere diventa, allora, una marca identitaria-bellica. Ma, come osservava Green, la psiche è troppo complessa per essere pensata da un solo modello.

Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?

Un maestro convincente è colui dal quale possono nascere tragitti, esplorazioni, estensioni insospettate e arricchenti la stessa teoria originaria. Ma perché questo avvenga occorre che la teoria di partenza sia dotata di una grande generatività, di un potere di estensione concettuale a partire dalle sue premesse o dai suoi assiomi. Ovviamente questo non impedirà, come ha ben cercato di mostrare fra noi, nella Spi, Riolo, col suo gruppo di ricerca, cha da differenti assiomi si generino differenti teorie. Ma resta il fatto che il testo freudiano è tutt’ora una miniera infinita di pensieri, di piste di ricerca, di modellizzazioni che non smettiamo mai di utilizzare, anche se da integrare con i suoi grandi eredi (Lacan, Bion, Klein, Winnicott, a esempio). La teoria freudiana è parlata da cima a fondo dall’inconscio del suo fondatore (e di coloro che con lui hanno interloquito) ed è questo valore di soglia che ne permette la sua fecondità.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

La dimensione archetipica presuppone una concezione della storicità collettiva e individuale che non ha nulla a che fare con Freud, Benjamin, Warburg e con la realtà anacronica dello psichico. Si tratta di una visione lineare-archeologica che non mi dice nulla.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Laplanche utilizzava per definire il momento in cui un’analisi può terminare, la metafora del lancio di un satellite nello spazio. Si tratta di accogliere/individuare il momento giusto per permettere il passaggio del movimento transferale su altri oggetti, su nuovi universi, nuovi orizzonti di vita e di senso. Se quel momento è mancato, occorre, aggiungeva, un nuovo giro per ritrovare il momento giusto. Ciò significa in un certo modo che la coppia analitica lavora alla ricerca di quel terzo su cui declinare, spostare il movimento centripeto affinché il soggetto possa tessere altri arabeschi, significativi per lui e per coloro che lo accompagnano nella sua esistenza. Ma è la relazione che decide, al fondo, quando è venuto il momento di sciogliersi, a meno di agiti dell’uno o dell’altro.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Quella che non appartiene più al campo della nevrosi, nel senso che finché siamo in essa, ci articoliamo ancora al principio speranza, alle traversie del desiderio, alla realtà e alle possibilità trasformative del conflitto psichico. Il problema nasce nel momento in cui la realtà clinica si presenta piuttosto come un’espressione del narcisismo negativo, della desertificazione psichica, della morte del senso, della possibilità di accogliere quote di alterità in assunzioni identitarie precarie. La distruzione del legame sociale, dell’investimento soggettivo, dell’odio verso il pensiero mi sembrano esprimere un cambiamento sostanziale nella clinica attuale e, allo stesso tempo, offrono una lente incredibile su ciò che accade intorno a noi. L’analista, da questo punto di vista, è un sismografo del suo tempo. Come osserva Recalcati, sotto il lettino dell’analista scorre un’intera città, si presentano interi mondi.

Curano di più le parole o i silenzi?

Parola e silenzio sono espressioni di funzionamenti psichici che assumono significati molto diversi a seconda del momento clinico o del paziente. Una parola può diventare il punto di appoggio per rilanciare un movimento intrapsichico, permettendo, come scrive Green a proposito della psicoanalisi, quel tragitto o quel ritorno su di sé passando per un altro, oppure assumere il valore di espropriazione. Il silenzio è ciò che permette la ripresa rielaborativa, può assumere il valore di una interpretazione, uno scollamento o, per alcuni pazienti, il segno di un abbandono catastrofico.  Se la psicoanalisi, correttamente, è definibile come una cura di parole, questo non significa che in essa non abbiano valore il ritmo, la prosodica, la tonalità, la corporeità e infiniti ulteriori accadimenti. Da un altro vertice, si tratta di comprendere che il momento in cui la relazione analitica riflette su sé stessa può esprimersi tanto in un sogno che in un silenzio significativo, o nella parola che uno dei due membri della coppia analitica pronuncia. Non vi sono priorità assolute ma solo relative al tempo del qui e ora.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Non vi sono o non vi dovrebbero essere mai, in analisi, delle formule che prescrivono un  dover essere. Preferisco parlare di quell’oltrepassare come di una “passe”, cioè di una esperienza che per essere feconda deve ovviamente includere lo spazio e il tempo dell’altro da sé, aprendosi ad altre traiettorie, altri percorsi, altri oggetti, fermo restando che se un’analisi ha funzionato bene, ne permetterà le sue ritrascrizioni, le sue deviazioni interpretative, le sue riassunzioni. Ogni eredità, per essere davvero tale, non può che passare per il lavoro soggettivo che ne tradirà il mandato. In questo senso ogni trasmissione contiene in sé la potenza e la fatica  del suo tradimento e, in questa operazione, esprime il successo della trasmissione medesima.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Non credo che gli analisti lavorino per fare crollare le resistenze. Esse dovrebbero essere intese come funzioni-limite che contrassegnano il campo delle trasformazioni possibili o accadute, la porosità, se vogliamo, del nostro rapporto con la realtà psichica. L’analisi ovviamente lavora per permettere al soggetto un rapporto con le teorie che egli ha costruito su di sé più elastico, meno stringente, meno invalidante, ma allo stesso tempo riconosce  ciò che in quel momento storico è possibile  integrare o accogliere. Del resto, nessuno vive senza membrane delimitanti, come scriveva Artaud. Il problema per lui, come per tutti noi, è di trovare il nostro personale, singolare equilibrio fra un’irruzione brutale di materiale psichico e la sordità assoluta. Ma nessuno può decidere la natura, l’estensione delle frontiere psichiche. Senza dimenticare che in alcuni casi il soggetto può avere, come nelle situazioni psicotiche, l’assoluta necessità di costruire qualche forma di resistenza vitale alla trasparenza assoluta. Quando il presidente Schreber, nel celebre caso di Freud, una notte dice “no” all’espropriazione delirante dei suoi organi da parte di Dio, in quel momento stabilisce un limite soggettivo che è assolutamente benvenuto.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

La complicazione nasce in relazione ai punti di cecità, a ciò che non scorgiamo nei movimenti psichici del paziente, nostri o della coppia. In un caso come nell’altro, ogni vettorializzazione psichica trasporta al suo interno infiniti reinvii, dialoghi, storie, conflitti e ciò che indichiamo come punto finale del processo può essere rischiosamente banalizzato, semplificato, privato della sua complessità e delle sue stratificazioni. Direi che la complicazione nasce quando tagliamo, per motivi disparati, una parte del campo fenomenico, accecandoci.

Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Freud chiarisce bene che la correttezza o la giustezza di un’ interpretazione deriva dal suo potere generativo, dalla messa in moto della dinamica associativa, dalla possibilità di riattraversare la realtà psichica, stabilendo nuove connessioni, nuove e diverse arborescenze, riaprendo testi già apparentemente consegnati all’oblio. In ciò consta la vitalità del processo analitico.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Se stiamo nella stanza d’analisi, siamo sempre in una situazione altamente complessa, data la realtà psichica di ciascuno dei soggetti implicati e della relazione che si stabilisce fra di essi. Il problema è che ogni punto limite nella definizione di proprietà (“il mio, il tuo”) è per l’appunto l’esito di un processo attributivo/espulsivo. Ogni identità al fondo non è che il limite provvisorio che diamo all’incontro con l’altro e alla sua accoglibilità. Così, se siamo disponibili, scorgiamo che i movimenti dell’uno si intrecciano con quelli dell’altro in una circolarità infinita. Chi può davvero dire chi ha cominciato nel momento in cui due sguardi si incontrano? La questione piuttosto mi appare quella della necessità, per ogni analista che voglia dirsi tale, di un lungo e continuo lavoro su di sé, proprio perché l’inconscio tende ad assumere un evento della realtà psichica come un punto identitario e dunque a rinchiudersi su di esso. Il compito principale dell’analista è di mantenere aperta l’esigenza di un’ancora, di un “e poi” che interroghi continuamente il bisogno di soddisfarsi di una certa dose di realtà psichica. In questo senso, Freud aveva ragione nel dire che vi è qualcosa della psicoanalisi che è in opposizione all’essere umano, nel suo bisogno di certezza, di coerenza, di stabilità, di chiusura identitaria.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Analisi breve può, dal mio punto di vista, indicare che il paziente, o la coppia, ha stabilito in maniera consapevole o inconscia un patto per occuparsi di alcune cose e non di altre. Il tempo della disponibilità a dialogare in altri modi con sé stessi  non può essere definito apriori. Ma se la coppia analitica affronta la paura dell’ignoto, di un rapporto assolutamente stra-ordinario con sé stessi, la questione della brevità finisce per andare sullo sfondo, soppiantata, invece, da un problema complementare: le analisi che non vogliono o non possono terminare. Avremo allora diversi orizzonti che si presentano ai nostri occhi: la brevità intesa come il tempo rapido del godimento frettoloso, il progetto di una risoluzione rapida e ben delimitata nei suoi effetti, di un problema, fino all’interminabilità di alcune analisi.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Libertà di ricominciare un tragitto rimasto interrotto, certo. Allo stesso tempo però essa apre all’acquisizione soggettivante di tutte le necessità che hanno contrassegnato la nostra storia e che ne hanno caratterizzato le traiettorie destinali, gli esiti, le domande, come ciò che abbiamo dovuto lasciare a margine o che gli altri ci hanno consegnato, come mandato, obbligo, prospettiva. Il paradosso si esprime bene nell’invito fatto al paziente a dire liberamente, apertamente, ciò che si pensa, per scoprire, dietro l’apparente casualità dei nostri pensieri, una costrizione stringente data dalla realtà dei pensieri inconsci, dalla quota relativa o assoluta di alterità inappropriabile. Eppure, nella scoperta e nel riattraversamento di questi infiniti determinismi, il lavoro analitico si assume il compito di ampliare la quota di responsabilità soggettiva, apre al campo del possibile o, meglio ancora, ai molteplici possibili sepolti in un destino o in una coazione a ripetere.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Quello di assumere un punto di coincidenza identitaria con sé stesso. Come scriveva Lacan, “se un uomo che si crede re è folle, un re che si crede re non lo è di meno”.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

La psiche è estesa, diceva Freud. È estesa al campo corporeo, in cui si esprime sotto forma di investimento libidico o di somatizzazione, alla realtà mentale e alla relazione con l’altro da sé che ne segnerà i confini possibili o impossibili, le trattative, i resti inesplorati o inelaborabili. Il rischio di pensare in termini di persona è quello, ancora una volta, di delimitare il campo interpsichico a due soggetti che sono piuttosto da pensare come prismi, cioè come campi ipercomplessi di rifrazione che trasmettono un’onda dopo aver assorbito tutte le altre. Quante e quali onde, quanti e quali tempi, quanti e quali iscrizioni patiche, affetti, rappresentazioni, interdetti, pensieri, cicli attraversano il campo? La questione dei due soggetti in una stanza può solo indicare che è attraverso di loro che interi mondi si presentano. Sarebbe forse utile parlare della spettralità costitutiva dei due soggetti, e dei rischi- assolutamente complementari- di cancellare il peso e la forza di ciò che accade in quel momento fra di loro, di diluire il tutto in una storicità lineare cronologica, di stampo anamnestico, o di perdersi nell’infinito rinvio delle ramificazioni possibili. Ma, come osservava Freud, a un certo punto appare l’ombelico del sogno: il punto oltre il quale non si può e forse non è più nemmeno utile proseguire.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

La svolta freudiana degli anni folli, come ha scritto Green, cioè la presa d’atto del ruolo e della forza della pulsione distruttiva, la comprensione del rifiuto della vita, del narcisismo negativo, dell’azzeramento pulsionale  e del silenzio psichico conseguente sono realtà cliniche ineludibili. E tuttavia, se possiamo avere una speranza di lavoro, di cura, di trasformazione, è solo grazie alla ripresa del sessuale infantile, della potenza creativa dell’inconscio, dei modi in cui il soggetto ha potuto operare su ciò che gli è accaduto, delle traduzioni, anche parziali, amputanti, ma comunque traduzioni, che egli ha potuto realizzare. Parlare del sessuale come di un genere narrativo fra gli altri, come alcuni analisti italiani propongono significa, per me, solo parlare a vanvera: qualcosa che non toccherà mai il campo delle verità acquisite, dei segni, delle tracce che quel soggetto ha lasciato sulla spiaggia della sua singolare, unica, esistenza nell’incontro con le orme di un altro che è apparso al suo orizzonte.