Romano Màdera

Romano Màdera, la ricerca del senso

Davide D'Alessandro

A colloquio con il filosofo e psicoanalista di formazione junghiana: “Ritengo Jung il più convincente dei maestri intanto perché ringraziava Dio di non essere junghiano, poi perché pensava che fossero integrabili gli insegnamenti di Freud e di Adler con il suo, a secondo della situazione concreta che ci si trova davanti. Siamo chiamati a cercare un senso capace di benedire e di sopportare la vita”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

Dipende dal tipo di domanda e dall’ascolto di questa domanda, e poi ci sono tante analisi, e in realtà, tante analisi quante sono le coppie, o i gruppi, analitici al lavoro. Naturalmente posso dire cosa vorrei che fosse per me, cosa cerco nell’analisi: il punto di partenza è la sofferenza psichica, cioè una sofferenza che non si riesce a curare solo con rimedi dietetici, farmacologici o comportamentali. Ma dietro questa sofferenza dichiarata c’è una domanda all’inizio enigmatica, cioè che rivela strati insondati di risonanze possibili di significati. L’analisi potrebbe servire a diventarne consapevoli, quindi più ricchi di sé stessi, dolori compresi. Se si procede su questa via ci si rende conto che è l’orientamento di vita della persona che è in questione: non orienta più, lascia nella confusione e nell’angoscia di impossibilità onnilaterali. Da qualsiasi parte non si trova energia desiderante, fluire dell’agire e dei progetti. In una parola: l’analisi è ricerca di senso. Per questo ho chiamato la mia proposta “analisi biografica a orientamento filosofico”. Orientamento filosofico: chiedersi sul serio “ma che senso ha il modo col quale sto affrontando la vita?”.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Appunto perché “stavo male” e a questo male non c’erano risposte o proposte plausibili per procedere nella vita. Perché ero finito in un vicolo cieco, dopo il fallimento della politica militante, dentro l’esperimento di una relazione amorosa che voleva cambiare tutto ma produceva misconoscimenti reciproci a catena… Insomma avevo perso ogni orientamento, non vedevo nessun “senso” valido nella mia esistenza.

Come scelse i suoi analisti?

 Volevo fare un’analisi reichiana, per scelta ideologica soprattutto, mi sembrava l’unico analista “rivoluzionario”. Poi una serie di letture e di coincidenze mi portarono a Jung e a Bernhard. Avevo scritto un libro, su Marx e Nietzsche, un testo critico e criptico – adesso in una nuova edizione insieme ad altri saggi, ripubblicato con il titolo Sconfitta e utopia – che aveva come titolo della seconda parte “Storia e biografia”, nel 1977. Stavo leggendo Jung e trovai il tema dell’individuazione un possibile percorso in avanti rispetto alle mie riflessioni. Poi Bernhard, il suo Mitobiografia, mi prese già dal titolo, ovviamente. E Bernhard era stato un socialista ebreo, internato in un campo italiano in Calabria. Insomma lo sentivo più vicino del conservatore liberale Jung. Così scelsi un allievo diretto di Bernhard: Paolo Aite. Poi ho fatto un’altra analisi con Mariella Loriga, ma la prima analisi fu quella decisiva. Con Paolo Aite ho anche rivisto due volte i mie “paesaggi della psiche” (dal titolo di un suo libro) cioè i miei giochi con la sabbia, la prima volta alla fine della analisi, la seconda venti anni dopo: ecco, il bello dell’analisi è questo, a volte si trova una fonte che sente e pensa che sembra perenne, o almeno, che può durare la vita intera.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Se avessi, o ci fosse, la ricetta… Però la prima condizione è togliersi dalla testa “l’ottimo”. Bloch diceva che l’ottimo è nemico del bene. Appunto. Diciamo un discreto analista: un continuo, assiduo, paziente, lavoro su di sé, mentre si va, con umiltà non finta, in analisi e quando si rimane soli con sé stessi. E poi, per me – ma questo vale per ogni professione e per ogni esistenza – saper arrivare a decidere una disciplina di vita, una dieta spirituale, che pratichi un insieme di esercizi, filosofici nel senso detto sopra, che modellino il  modo di vita. Questa è una linea di pratica e di pensiero che cerca di tener vivo e di approfondire, adeguandolo alla contemporaneità, il lascito di Pierre Hadot. Su questa base abbiamo cercato, con gli amici di Philo, di costruire una scuola che integri l’eredità analitica con quella delle pratiche filosofiche, e abbiamo costituito una società di analisi biografica a orientamento filosofico (SABOF). Non per sostituirci alle altre scuole: in SABOF ci sono analisti formati a Philo insieme ad altri di formazione junghiana, lacaniana, gestaltica… che rimangono anche nelle loro associazioni di provenienza. Peraltro io stesso continuo ad appartenere all’AIPA e alla IAAP, le associazioni di psicologia analitica italiana e internazionale, e faccio parte del Laboratorio Analitico delle Immagini, un gruppo di analisti impegnato a studiare e a praticare il gioco della sabbia, secondo l’impostazione di Paolo Aite. Ma tutto ciò senza illudersi minimamente di aver trovato la pietra filosofale. Questi sono solo aiuti di contorno, per dire così, la formazione di ciascuno è una questione troppo importante e profonda e  interminabile per ridurla a una scuola.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Sono inevitabili. L’analisi, questo penso io, voleva essere una scienza, ma non lo è. Non ne ha le caratteristiche di fondo, che vanno da una terminologia ben definita e riconosciuta dagli esperti nel campo, alla possibilità di discutere a fondo e pubblicamente i protocolli di ricerca, a una qualche verifica e falsificazione dei suoi assunti. L’analisi è una pratica etica, cioè ha a che fare con le scelte possibili di orientamento, di valore, di preferenze, come ho detto. E le scelte nella vita personale e collettiva non possono essere ridotte alle nozioni scientifiche del campo in cui agiamo. Anche perché qui è in gioco la vita intera. Insomma è una pratica filosofica che, in generale, non sa di esserlo. Certo parlare di scienza era e resta più conforme allo spirito ( e però anche al mercato delle idee) della nostra epoca.

Perché ritiene Jung il più convincente dei maestri?

Perché intanto ringraziava Dio di non essere junghiano. Su questo ho scritto il primo capitolo del libro Jung. L’Opera al Rosso,  pubblicato da Feltrinelli. Ma poi perché pensava che fossero integrabili gli insegnamenti di Freud e di Adler con il suo, a secondo della situazione concreta che ci si trova davanti. Tutti aborrono la parola “eclettismo”: invece poter scegliere, con oculatezza e con passione partecipante, tra diversi orientamenti , cercando anche quanto li rende compatibili, credo sia una gigantesca risorsa per i nostri tempi e la nostra cultura. In ogni caso, se sono qualcosa, se dovessi proprio definirmi , allora preferisco definirmi  un eclettico, e amo i maestri eclettici. Che quindi sono maestri che per definizione sanno farsi da parte. Pierre Hadot ha scritto pagine geniali sull’eclettismo possibile, oggi, nei confronti della immensa eredità della filosofia antica greco-romana.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

La mia formula è: “cercare un senso capace di benedire e di sopportare la vita”.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Anche qui, dipende: dalla ricerca di un senso plausibile non si guarisce. È la “malattia” dell’umano in quanto umano, in realtà è la dignità dell’esistenza umana. Ma cercare un senso presuppone la massima cura e rispetto, una sorta di devozione per la libertà dell’altro. Dunque si finisce quando per l’analizzante il lavoro della coppia analitica si può concludere perché semplicemente si “sta meglio”, oppure perché il rapporto è diventato poco produttivo e ha dato quel che poteva dare, oppure finisce quando l’analizzante desidera percorrere da solo la sua via. Io penso che l’autoanalisi prima dell’analisi sia o un tentativo di prepararsi, e va bene, o un peccato di superbia e di falsa autosufficienza. Invece l’autoanalisi, come nerbo degli esercizi filosofici della propria disciplina spirituale  è, secondo me, lo stadio ultimo, veramente conclusivo dell’analisi stessa. In sostanza: l’autoanalisi come una delle “ abitudini virtuose”, aristotelicamente,  di un modo di vita filosofico.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Grave o non grave non è una quantità misurabile di una supposta entità patologica. Le patologie esistono ovviamente, esiste una loro tipicità, anche una loro gravità più o meno alta. Ma tutto questo serve per avvicinarsi, per cominciare a inquadrare quel che veniamo a sapere della persona: esattamente quanto la sua età, il suo genere, lo strato sociale di appartenenza, la formazione etc. etc. Poi si viene in contatto con lui o con lei. Ed è tutta un’altra musica. Quel che è più grave può diventare meno grave di quello che non è affatto grave in generale, ma imprigiona una persona. Per rispondere alla sua domanda: il caos, l’aggrovigliarsi dei desideri e delle scelte, cioè lo sbilanciamento del sé. O troppo in basso, depressivamente, o troppo in alto, maniacalmente, o troppo isolato, ossessivamente, fobicamente e paranoicamente, o troppo  fusionalmente indistinto, nascosto dietro un falso sé, oppure istericamente o panicamente indifferenziato, dipendente da sostanze o comportamenti . O ancora, ma in questo caso solo alcuni riescono a rimanere in analisi, il disequilibrio permanente, i cosiddetti borderline. Ma anche le normopatie, che fanno di un immaginario bilanciamento il loro criterio, sono  appunto patologiche.  In genere però non si va in analisi perché si è “troppo normali”. Peccato, si scoprirebbe che dietro la facciata… 

Curano di più le parole o i silenzi?

Non c’è parola senza silenzio, e viceversa. È una questione musicale: dipende dal pathos situazionale, dal ritmo. Ma la musica deve essere diretta dalla domanda: “cosa possiamo dirci? Ne trarremo una comprensione più profonda e, nello stesso tempo, assimilabile in questa precisa circostanza?”. Non esiste nessuna ricetta su quando parlare e quando tacere, se lo si fa programmaticamente allora si è sicuri che si sta sbagliando.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Se è solo ucciso, allora vuol dire che non si è capito che l’uccisione equivale a una mutilazione di sé, della propria biografia e della propria storia. Insomma “uccidere” il padre simbolicamente è tutt’altra cosa, è un processo drammatico, è una parte della tragedia necessaria: in realtà perché il padre simbolico comunque muore se si cresce attraversando le diverse fasi della vita, e ogni morte porta con sé, necessariamente, l’esplosione delle ambivalenze. Tacitarle le trasforma in sintomi. Oltrepassarlo: bella espressione, se si capisce che oltrepassare il padre vuol dire realizzare il desiderio migliore e più alto del padre. E non del padre, ripeto, reale, che può essere stato un buono a nulla o, peggio, un mascalzone, ma del padre che qualsiasi orfano vive comunque perché è parte costitutiva della suo essere un umano.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Perché farle crollare? Diffiderei dei crolli. Le resistenze devono essere ascoltate e accolte. Già il loro manifestarsi esprime, direi quasi “denuncia”, confessa, quello a cui si resiste. Bene, le resistenze sono gran parte di noi. Bisogna solo andare dentro a quello a cui si oppongono, così si vedrà che la brutta e sporca e trascurata e serva Cenerentola, ha tratti da vera principessa. Allora si può cominciare magari a conoscerla, a darle qualche appuntamento, ad aspettarla sperando che ci dica di sì.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Anche qui, dipende dalle circostanze. In generale e secondo quel che penso di aver capito, il controtransfert è più difficile perché il fare l’analista comporta un serio pericolo: credere di sapere di sé, e quindi trascurare un vero confronto faccia a faccia – duro e spiacevole, perché si tratta di convocare le proprie ombre al tavolo del dialogo – con le parti sconvenienti di sé stessi. In una formula per l’analisi e l’autoanalisi: si tratta del confronto-scontro tra le Maschere Sociali e i Doppi Impresentabili.

Per  Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Il sogno è una straordinaria invenzione di racconti figurali a nostra disposizione, possiamo venire a conoscere centinaia di versioni alternative di quel che sentiamo o pensiamo. Freud aveva dunque ragione, anche se non concordo con aspetti della sua meta psicologia, in gioco nei fondamenti della sua interpretazione dei sogni. Una buona interpretazione? Qui la mia epistemologia è semplicemente quella evangelica: un albero si giudica dai frutti. Se l’interpretazione diventa un’occasione di nuove scoperte di comprensione su sé stessi, allora è una buona interpretazione. Se passa senza aver suscitato granché, allora lasciamola perdere. Naturalmente può anche darsi che col tempo salti fuori che era sensata. Benissimo, cambieremo giudizio, ci eravamo sbagliati, ma forse avevamo anche precorso troppo i tempi.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Non c’è dubbio per me: con il mio. Ma anche perché credo di saperne di più, è da 70 anni e passa che abbiamo una relazione intima …

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Tutto può esistere e tutto può chiamarsi come vuole. Ma un’analisi programmaticamente breve è secondo me sostanzialmente illusoria. Può produrre anche buoni effetti, però come effetto di suggestione. Alla prima vera difficoltà si torna daccapo. Certo i costi contano. Ma non sono tutto. Ovviamente l’accelerazione complessiva del nostro stile di vita, che ha profonde ragioni strutturali, intendo fondamentalmente economico-sociali, conta moltissimo, credo molto di più, altrimenti si farebbero “sacrifici” per affrontare un percorso lungo ma fortemente desiderato. E oggi ci sono nuovi analisti che, complice un “mercato” diventato un problematico suq, offrono possibilità di costi “tagliati” sulle possibilità dell’analizzante, anche molto contenuti. Quindi l’idea che tutto dipenda dai costi e dalla lunghezza non mi pare coprire il fenomeno. D’altra parte, ormai ci sono cosiddette terapie per tutto. La terapia filosofica – questi termini si trovano in tutta la filosofia antica, da Platone a Epicuro  - mira a curare, o meglio, a imparare a curarsi della vita. I sani che non si occupano del senso della loro esistenza, lo diceva già Socrate, sono veramente malati. Cosa ne direste di chi possiede un tesoro e si dimentica di averlo o lo sversa nella spazzatura?

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Sì, come tutti i  veri cammini spirituali, solo che l’analisi è quello più adatto alla nostra epoca, ed è possibile, con essa, rivitalizzare e ritrovare nuovi modi di far vivere i cammini spirituali tradizionali. E poi aggiungerei: la libertà, antropologicamente, non politicamente, è costitutiva dell’umano: noi inventiamo il mondo nel quale viviamo – pensiamo alle tecniche, da milioni di anni fa a oggi – e questo vuol dire che possiamo fare alcune scelte, anzi dobbiamo scegliere tra preferenze possibili diverse. La chiamo la libertà originaria della cultura. Ma questo è anche il dramma tipicamente umano: il senso della nostra vita deve essere scelto. Se non lo facciamo noi vuol dire che stiamo seguendo, come ciechi, un sentiero che hanno indicato altri. Dunque sì la libertà, ma sapendo che la libertà è un dramma.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

L’angolo cieco che non vede sé stesso, e spesso per la presunzione di conoscersi abbastanza. Questo vuol dire proiettare sugli altri, analizzanti e no, le nostre credenze. Anche qui, il dubbio metodico filosofico non deve essere rifiutato, al contrario, deve essere rafforzato e reso più aderente al nostro tempo attraverso la pratica analitica.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Per carità. Noi siamo costitutivamente il nostro mondo: la società e la cultura per prime, nelle quali soltanto si può capire il dramma familiare, e poi la nostra formazione, gli incontri, con i vivi e con i morti, attraverso le tradizioni e i documenti del passato. Credere che esistano persone indipendenti da tutto questo è già stare, senza saperlo, in una posizione falsa. In una inconscia epistemologia egoica: proprio quello che, per la filosofia come modo di vivere, bisogna oltrepassare, trascendere: andare al di là della supposta centralità dell’io e dei propri interessi egoistici – o del cattivo narcisismo – questa è la finalità degli esercizi filosofici. E noi diciamo: questa è anche la finalità dell’analisi biografica.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

La sessualità è tanto più importante quanto più è più facile attraverso le sue figure, far entrare in scena i nostri doppi impresentabili e confrontarli con le nostre maschere sociali. Ma oggi è stata sdoganata ogni possibile variazione sul tema. La liceità di ogni voglia è diventata legge del nostro comportamento, l’ho chiamato “licitazionismo”, come caratteristica fondamentale della cultura della nostra epoca. E quindi anche la sessualità va interrogata più a fondo. Ma qualsiasi “nascondimento” ci parla dell’altra parte, di quella che ci disturba e ci interpella. Possono essere i soldi o la malinconia indicibile del vivere  o… o … Ogni gesto, ogni parola, ogni incontro può essere occasione di rivelazione dell’altro, meglio degli altri e dell’Altro in noi e fuori di noi. Che non è il fine della ricerca, ma certamente il suo imprescindibile inizio. All’inizio, al centro e alla fine c’è sempre la ricerca del senso, il confronto con i controsensi e il nonsenso, il desiderio di un senso capace di accettarli, contenerli e superarli. La sessualità è un magnifico e tremendo teatro di tutto questo, per chi voglia avere occhi per guardare e orecchie per ascoltare.