Oriana Fallaci

Scrivere uccide, parola di Oriana Fallaci

Davide D'Alessandro

Da una strana similitudine con un passo di Giuseppe Fava, la più significativa dichiarazione sulla paura del foglio bianco, sul martirio della frase che zoppica, su una inevitabile rovina

«La notte i cani randagi invadevano la città. Centinaia e centinaia di cani che approfittando dell’altrui paura si rovesciavano nelle strade deserte, nelle piazze vuote, nei vicoli disabitati, e da dove venissero non si capiva perché di giorno non si mostravano mai. Forse di giorno si nascondevano tra le macerie, dentro le cantine delle case distrutte, nelle fogne coi topi, forse non esistevano perché non erano cani bensì fantasmi di cani che si materializzavano col buio per imitare gli uomini da cui erano stati uccisi».

È l’inizio di Insciallah, di Oriana Fallaci. Un inizio acuto, incisivo, penetrante. Mi ricorda la magnifica descrizione notturna di Giuseppe Fava su Palma di Montechiaro. Protagonisti, i cani. Scrive Fava: «…da tutte le strade e i vicoli sentii uno scalpiccio vago, sembravano decine, centinaia di persone che correvano a piedi scalzi, e contemporaneamente cominciai a vedere ombre basse che venivano radente i muri, dapprima cautamente come se volessero scrutare chi fosse quell’essere umano al centro della piazza, poi sempre più velocemente. Erano cani. Decine e decine di cani». Avrei voluto chiedere alla Fallaci se si ispirò, per scrivere le prime avvincenti righe del libro, a La vergogna, il magico racconto del grande giornalista e scrittore siciliano ammazzato dalla mafia. Ma avrei voluto anche ringraziare la più grande scrittrice italiana per aver spiegato a tutti, finalmente e con estrema chiarezza, che cosa significhi scrivere.

Lo fece tramite il Professore, il personaggio che nel romanzo, secondo Piero Ostellino, incarna più di ogni altro le passioni intellettuali dell’autrice: «Colonnello, crede seriamente che scrivere sia una gioia? Glielo spieghiamo noi cos’è. È la solitudine atroce di una stanza che a poco a poco si trasforma in una prigione, una cella di tortura. È la paura del foglio bianco che ti scruta vuoto, beffardo! È il supplizio del vocabolo che non trovi e se lo trovi fa rima col vocabolo accanto. È il martirio della frase che zoppica, della metrica che non tiene, della struttura che non regge, della pagina che non funziona, del capitolo che devi smantellare e rifare rifare rifare finché le parole ti sembrano cibo che sfugge alla bocca affamata di Tantalo (…). Colonnello, c’è gente che è finita o finisce nelle cliniche psichiatriche o al cimitero per via dello scrivere. Alcolizzata, drogata, impazzita, suicida. Scrivere ammala, signor mio, rovina. Uccide più delle bombe». La celebre scrittrice, leggendo quel brano ai librai, aggiunse: «Cazzo, se uccide!».

Ma Oriana Fallaci non avrebbe voluto «morire neppure da morta». Oggi torna in libreria con La vita è una guerra ripetuta ogni giorno. In guerra «non spari garofani. Spari pallottole, bombe, e uccidi innocenti». Come con la penna, che uccide e ti uccide. Sempre di morte parliamo.