Vincenzo Consolo

Incipit, incipit delle mie brame, chi è il più bello del reame?

Davide D'Alessandro

Consolo sul podio più alto con “Retablo”, poi Kafka, Fenoglio e Arpino. Le prime righe di un libro dicono molto, se non tutto, annunciando il capolavoro

 

Se la morte di Antonio Tabucchi ai libri mi serra, quella di Vincenzo Consolo, lo scrittore siciliano scomparso a settantotto anni, mi riconduce a Retablo, l’incipit più accattivante, appassionante e travolgente della letteratura italiana. Ve n’è un altro che mi è caro. È di Beppe Fenoglio, in Appunti partigiani. 1944-1945. Quando qualcuno chiede che cosa sia la scrittura, come si debba scrivere, mi viene di rispondere che si scrive come scrive Fenoglio: «“Tornaci. Se te la senti, tornaci. Ma sappi che ogni volta passeranno con camion e mitraglie e cani per quelle colline dove tu sarai, io mi sentirò morire. Ora vai”. Abbraccio mia madre, non stretta, che non senta col petto la pistola che mi sforma una tasca. Scendo nel prestino, lo traverso. Alla porta il fornaio di Bellonuovo mi mette la mano nella mano e in tasca un cotechino incartato. Gli sono grato che non mi parla di rifletterci bene, pesto i piedi per aggiustarli negli scarponi, e vado. È già buio e molto freddo. Non c’è luna, ma spunterà? Risalgo la provinciale Alba-Acqui per un duecento metri, taglio in un prato in salita e sono sulla stradina di S. Rocco. Lì stacco il mio bel passo da campagna; paiono viaggiare con me le colline alla mia destra, che guardano la mia piccola città tenuta da loro. Ci vive la ragazza di cui sono, sarò sempre innamorato. Se ora almeno non fossi innamorato, o se piuttosto quella bellissima mi desse speranze. A non voler staccare gli occhi da quelle colline, mi trovo con un piede sul vuoto del fossato. Mi riporto in metà della strada con uno scossone. Ma l’amore si fa ripensare. Se m’ammazzano, posso sperare che lei senta qualcosa rompersi dentro e venga su per le colline a cercarmi tra amici e nemici, ululando come una lupa? Mi ritroverà lungo, lunghissimo sopra la neve e mi bacerà tra sangue e gelo».

E che dire di Franz Kafka, dell’inimitabile “Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”? E come faccio a non ricordare l'attacco di La suora giovane, il capolavoro di Giovanni Arpino? «Non ho coraggio. Se riesco a stare chiuso in casa è perché non so più dove sbattere la testa. Ho passeggiato, grazie a questo smorto sole di dicembre, sono stato al cinema, ho letto il giornale. Non è ancora sera ed eccomi di nuovo qui, incerto se telefonare o no a qualcuno, se sdraiarmi sul letto o aprire la radio. Appena smetto di fare, sprofondo». Antonio Mathis e Serena, figure indimenticabili ancora oggi, a trent'anni dalla scomparsa dell'autore.

Ma l’incipit di Retablo, dicevo, è sul gradino più alto del podio. Eccolo: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi! per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?».

È una scrittura rapinosa e avvincente che mi porta l’isola bedda, beddissima, dentro casa, sotto le lenzuola, davanti allo specchio mentre mi rado e penso che non ci sia spettacolo più bello al mondo di un’emozione che si traduce, che parte dall’angolo più intimo e buio di uno scrittore e, attraverso un lungo viaggio di parole, giunge talvolta a sfiorare il tuo, talaltra a penetrarvi prepotentemente per restarci dentro, dentro le tue viscere. Per sempre.

                                                                 

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