Giovanni Arpino

Cardinal e Arpino, parole dette e celate

Davide D'Alessandro

C'è chi le pronuncia per liberarsi e ritrovarsi, chi le nasconde per alimentare l'immaginazione. Viaggio tra psicoanalisi e scrittura

Sono tanti i libri che ho divorato in una notte o in un giorno ma, più di ogni altro, con la stessa sete del bambino che tutto sudato corre verso la fontana, Le parole per dirlo di Marie Cardinal. Le sue sensazioni erano le mie, le sue desolazioni le mie, le sue ribellioni le mie, le sue urla le mie, le sue speranze le mie, le sue parole le mie. E lei le aveva trovate, come me, dopo sette lunghi anni, per dirle. Per dire la storia di una donna divorata da un’angoscia senza fine, per dire la sua consegna nelle mani di un piccolo dottore che, attraverso l’analisi, la riconduce in vita, anzi la fa nascere a trentasette anni. La dedica del libro non ammette dubbi: «Al dottore che mi ha fatta nascere».

Chi è nata? La donna tenuta prigioniera dalla “Cosa”. Scrive Cardinal: «Ho parlato e l’ho liberata... Sono nata da lei a poco a poco... Ma la mia ricchezza è proprio nell’essere stata quella donna e quello che sono ora... Ho scorticato tutte le leggi, che mi avevano asservito fino a ridurmi a uno straccio». Per chiudere così: «Esisto da sette anni... Sono nata con la psicoanalisi». Anche per Banana Yoshimoto, «non si muore per un dolore reale, ma per quello che non riusciamo a raccontare».

La sofferenza psichica è un male terribile ma, come ha spesso rimarcato Aldo Carotenuto, è una ferita che chiama, che ci chiama. Se sappiamo rispondere alla chiamata, sopportare le devastazioni che i lenti attraversamenti del dolore comportano, nasciamo a nuova vita. La vera vita. Da soli non si può. Io necessito di un altro, di uno specchio, più o meno neutro, che rimandi la mia immagine, il mio volto esangue. Io ho bisogno di una guida, come Dante di Virgilio, che mi tenga per mano durante la discesa agli inferi. Ma quella mano un giorno si staccherà, mi inviterà a proseguire il viaggio da solo. Avrò acquisito gli strumenti per affrontare il cammino impervio dei giorni che restano.

Ma cosa cerco dove non c’è luce, dove il fango appesantisce i miei passi, dove tutto appare putrefatto? Cerco una perla. Quella perla sono io, ero io prima della sepoltura. Chi l’ha sepolta? Quando? Perché? Dipende. Ognuno ha la propria storia da raccontare, i propri fantasmi da evocare, i propri veli da squarciare. Ognuno ha le proprie parole per dirlo. Ma se non trovo quella perla, ho perso tutto. La mia vita sarà inutile fino all’ultimo dei miei sospiri. Perché non sarà la mia, ma quella vissuta da un altro che mi ha cancellato, sepolto, rubandomi la scena con la sua maschera buona per tutte le scene. È quella maschera che devo eliminare, come sta per eliminarla una donna vestita da Arlecchino e seduta in poltrona nel quadro che tutte le mattine guardo prima di uscire da casa. È di un pittore napoletano. Lo comprai a Siena, in una sera di pioggia e di vento, senza neanche trattare sul prezzo. Ora sapete perché.

Mi rese felice ascoltare, qualche anno fa, dalla voce della signora Caterina Brero, studiosa di scienze naturali, moglie per sempre di Giovanni Arpino, che almeno parte dell’Italia si stesse ricordando di suo marito. Ascoltai la signora e pensai a Bra, alla sigaretta tra le dita, all’amore per la Juventus, a La trappola amorosa, il romanzo postumo che regalai a una ragazza bruna passeggiando per via Roma, a Torino, in una gelida serata di gennaio. Dissi alla signora che fu il finale di La suora giovane a rendermi evidente, solare, la grandezza dello scrittore, quel lasciare immaginare, quel rivelare celando. Quando Giorgio Bàrberi Squarotti lesse uno dei miei libri, pur tra gli elogi immeritati, mi fece notare questa mancanza, il difetto di un finale troppo rivelato, di un finale da far …morire prima. C’era un di più da eliminare. Da sopprimere. È il superfluo che dobbiamo eliminare, non la vita. La vita è tutto e nulla di tutto ciò che spesso ci viene propinato ha a che fare con la vita.