Ventura e Tavecchio. Foto Ansa

Da Pinturicchio a Venturecchio: l'Italia finisce, ecco quel che resta

Davide D'Alessandro

Breve considerazione su una partita di calcio finita malissimo, ricordando Prezzolini e un libro attualissimo

Lunedì sera anche i più recalcitranti, anche i palati fini che mai accosterebbero occhi e orecchi a un’arena dove ventidue scalmanati corrono dietro a un pallone spinti da un tifo tribale, hanno compreso che una partita di calcio non è soltanto una partita di calcio. E se è la Nazionale, e non una squadra di club, a scendere in campo diventa occasione per muovere, esaltare o abbattere lo spirito di un popolo. È finita com’è finita. Malissimo. La piccola Svezia in tripudio, Buffon in lacrime amare, perché c’è anche e sempre il melodramma nello spirito del nostro amato Paese. Al centro il capro espiatorio, anzi due: Ventura e Tavecchio, allenatore e presidente. Venturecchio.

È mancata la qualità, signori. Di Venturecchio e dei giocatori. Da Pinturicchio a Venturecchio la differenza si sente. E a casa non abbiamo lasciato Messi. Arriviamo tardi e male. In affanno. Speriamo nella proroga. Non sono forse una proroga, i tempi supplementari? Questa volta, neppure quelli. E meno male che ci sono stati evitati i rigori. Tanti cuori non avrebbero retto. Giuseppe Prezzolini, nel 1948, scrisse un libro in inglese, rivolto agli americani, per svelare loro le false idee e i luoghi comuni su una Nazione mai divenuta tale: “L’Italia finisce, ecco quel che resta”. È attualissimo. E Prezzolini, assicurava Montanelli, “non era un antitaliano. Era soltanto un italiano deluso”. Come noi.