EuPorn-Il lato sexy dell'Europa

A Sarajevo si spezza ancora il cuore fragile dell'Ue

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Nei Balcani malati di troppa storia le promesse europee sembrano ormai un imbroglio. Un viaggio che parte dalla Bosnia dove si parla di una nuova guerra

Sarajevo è una città talmente inafferrabile che spesso per descriverla la si accosta ad altre città. La chiamano la Gerusalemme europea o la Teheran europea, quasi che carpire il vero senso di Sarajevo sia troppo difficile. E in effetti, lo è. Sarajevo è meravigliosa, complessa, sembra sterminata, è una città funambola: si camuffa, ti fa credere di essere ovunque e questa sensazione di alterità è forse il vero senso di Sarajevo, una città che sembra un viaggio e che, parafrasando Winston Churchill, soffre di troppa storia. Perché qui di cose ne sono successe, ma quello che proprio non vogliamo più vedere è che di cose ne continuano ad accadere, senza sosta. E no, non è un posto normale: Sarajevo tutta la sua eccezionalità sembra quasi  non riuscire più a sopportarla, già  prima dell’omicidio di Francesco Ferdinando, arciduca d’Austria ed erede al trono imperiale, figuriamoci ora.

   

Tutto quello che accade a Sarajevo diventa potente e noi europei per cercare di non avvertirne più  la potenza abbiamo deciso di non guardare più da quella parte, a sud est, illudendoci che, ritirando lo sguardo, la macchina della storia così produttiva a Sarajevo magari si incepperà, prima o poi. Non è così e lo sta dimostrando proprio in questi giorni in cui  c’è un via vai di diplomatici allarmati dal fatto che Milorad Dodik, attuale rappresentante serbo della presidenza a tre della Bosnia Erzegovina, ha minacciato di creare un esercito serbo separatista, boicotta le istituzioni centrali costruite su un complicatissimo sistema di pesi e contrappesi e fa tornare alla mente tormenti etnici recentissimi.

 

Dodik è furioso perché a luglio l’allora Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, l’austriaco Valentin Izko, incaricato di sovrintendere all’attuazione degli accordi di Dayton, ha deciso di sanzionare chi nega il genocidio di Srebrenica del 1995. A Srebrenica l’esercito della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina guidato da Ratko Mladic massacrò oltre ottomila musulmani bosniaci. Gli europei e gli americani, che allora cercavano di non vedere, furono costretti a guardare con attenzione quello che era accaduto, ed era atroce, e furono costretti a formulare  una soluzione per pacificare i Balcani. La soluzione furono gli accordi di Dayton che oggi, come scrive Sylvie Kauffmann sul Monde, sono invecchiati male.

 

La dimostrazione sta nelle minacce di Dodik che dice di rifiutare la divisione della Bosnia Erzegovina in due entità – Republika srpska e Federazione croato bosniaca – parla di secessione, di un nuovo sistema fiscale e giudiziario e ha già creato una propria agenzia dei medicinali. L’atteggiamento di Dodik non soltanto è una minaccia per gli accordi, ma fa tremare, rievoca parole come nazionalismo, come separatismo. Contro questi fantasmi i cittadini stanno scendendo in piazza a Sarajevo perché il ricordo di quello che è successo, delle guerre, dell’odio, della sofferenza è ancora vivo in ogni famiglia, in ogni persona, anche nei più giovani. Con questi fantasmi sta cercando di giocare Dodik che in questi giorni si è incontrato con Janez Jansa, il premier sloveno dal cuore orbaniano, Viktor Orbán  in persona, che è andato a Banja Luka a pranzare con Dodik, e infine con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

 

Siamo partite da Sarajevo per capire quanto è reale la minaccia di questo leader che un tempo veniva definito un moderato e di questa Bosnia Erzegovina malata di troppa storia e abbiamo cercato le ragioni che spingono l’Ue così lontana dai Balcani.

 

Milorad Dodik gioca con i fantasmi e indovinate chi è andato a offrirgli la sua alleanza? Viktor Orbán


La minaccia di Dodik. Aleksandar Brezar è un giornalista che scrive, tra le varie testate, per Euronews, il Guardian e il Washington Post, cura un podcast che si chiama Calling e si occupa “di tutto ciò che è a est di qualcosa” e in passato è stato corrispondente da Bruxelles. Ci ha spiegato che gli Stati Uniti, rispetto all’Ue, stanno assumendo una posizione più forte riguardo all’atteggiamento della Republika srpska. “Quello che intende fare Dodik non è neppure tecnicamente possibile”, ci ha detto Brezar. Dodik sta tentando un colpo anticostituzionale, ma quando cercherà di andare oltre alle minacce, si azionerà un sistema di pesi e contrappesi che renderanno i suoi piani inattuabili. “La sua è una politica della paura”. Gioca con i fantasmi “e la reazione delle persone è comprensibile quando menzioni l’esercito della Republika srpska, visto il suo ruolo storico”.

 

La sola idea che l’esercito si ricrei spaventa, Brezar ci ha detto che secondo alcune stime fino alla metà della popolazione in Bosnia soffre di qualche forma di disturbo da stress post traumatico a causa della guerra. La cosa più importante a cui guardare, ci suggerisce il giornalista, è la reazione di Stati Uniti e Unione europea: come decideranno di affrontare Dodik? Gabriel Escobar, inviato speciale degli Stati Uniti nei Balcani occidentali, lo ha incontrato a Sarajevo e ha definito il colloquio “produttivo”. Dodik, per tutta risposta, è stato più polemico e non ha fatto passi indietro. “La comunità internazionale sta cercando di calmare la situazione, rimane da chiedersi se continueranno a usare gli stessi metodi o cambierà qualcosa? Cercheranno un metodo diplomatico per risolvere la questione o adotteranno un atteggiamento sanzionatorio?”. Dodik era già stato sanzionato dagli Stati Uniti nel 2017, l’Ue tra i veti incrociati, non lo aveva fatto. L’Alto rappresentante, che ora è il tedesco Christian Schmidt, potrebbe usare i suoi poteri, “potrebbe rimuoverlo, non sarebbe una decisione inaudita, ma sarebbe grave”. Chi userà i suoi poteri e fino a che punto si spingerà non si sa, ma l’Ue finora sembra la più timida. Non guarda e sembra anche fingere che la sua promessa di allargamento non sia mai esistita. Brezar ci ha detto che nei Balcani, non soltanto in Bosnia Erzegovina, la fiducia nell’Ue negli ultimi anni si è erosa. E’ l’effetto delle promesse non mantenute, di un allargamento rimandato troppe volte. 

  

A proposito di allargamento.   Serbia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del nord, Bosnia e Albania  vogliono aderire all’Ue. Molti di loro hanno fatto le riforme richieste da Bruxelles per proseguire o avviare formalmente il processo. Il processo di allargamento è sempre stato definito come la principale arma del “soft power” dell’Ue. Quello che aveva portato all’adesione di dieci stati membri nel 2004, che aveva permesso una transizione democratica ed economica di straordinario successo. Ma per i Balcani la porta rimane socchiusa o chiusa del tutto. L’ultima dimostrazione si è avuta il 6 ottobre, quando i capi di stato e di governo dell’Ue si sono ritrovati a Brdo, in Slovenia, per un summit con i paesi dei Balcani. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva fatto prima dell’incontro un tour nella regione per rassicurare tutti. E invece al summit i 27 si sono scontrati per due giorni su un documento che alla fine ha inviato un messaggio contraddittorio. “L’Ue riconferma il suo impegno per il processo di allargamento”, ma solo quando sarà assicurata la sua “capacità  di integrare nuovi membri”. 
 
Le resistenze. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha fatto modificare dalla Commissione le procedure per l’adesione. Secondo la Francia, già oggi l’Ue non riesce  a funzionare a 27, figurarsi a 33. Ma dietro la facciata europeista si nasconde la paura  di un rigetto da parte dell’opinione pubblica, analogo a quello che portò al “no” al trattato costituzionale dell’Ue nel 2005 dopo una campagna all’insegna del “no” all’idraulico polacco. La Bulgaria da mesi mette il veto all’avvio dei negoziati con la Macedonia del nord per un antico conflitto nazionalista, che ha implicazioni di politica interna. In questo modo ha preso in ostaggio anche l’Albania che, al pari della Macedonia del nord, ha fatto tutto quello che l’Ue le aveva chiesto. La Spagna e altri quattro stati  non riconoscono il Kosovo. L’Austria è favorevole all’allargamento, ma frena per i paesi a maggioranza musulmana. Come premio di consolazione è stato offerto loro un pacchetto di aiuti economici da 9 miliardi. 
  
Le conseguenze. In Macedonia del nord, il riformatore Zoran Zaev, che aveva concluso un accordo storico con la Grecia sul nome del paese e completato il processo di adesione alla Nato, si è dovuto dimettere dopo una pesante sconfitta elettorale che molti osservatori attribuiscono alla delusione dei cittadini per le promesse violate dell’Ue. L’attuale governo del Montenegro è stato lasciato da solo, quando ha chiesto aiuto all’Ue per evitare di dover cedere una parte del paese alla Cina per rimborsare un prestito contratto dal precedente esecutivo per la costruzione di un’autostrada nell’ambito delle Nuove vie della Seta. In Albania la spinta riformatrice del premier Edi Rama si è di fatto esaurita. Serbia e Kosovo non perdono occasione per litigare con l’Ue costretta a fare da mediatore. L’ultima volta la Commissione ha cantato vittoria per aver strappato una tregua tra i due sulle targhe delle automobili. E mentre l’Ue lascia i Balcani preda dei conflitti locali, Cina e Russia approfittano per riempire il vuoto politico, senza dover spendere troppi soldi. Pechino con il suo espansionismo economico. La Russia con la sua destabilizzazione economica.

 

Parla Giffoni. Michael Giffoni è stato capo della task force per i Balcani dell’Alto rappresentante per la Politica estera Ue e ambasciatore italiano a Pristina, i Balcani li conosce benissimo e ci ha svelato che “la prospettiva europea dei Balcani all’interno dell’Ue nasce proprio dopo Dayton”. In quell’occasione, in Bosnia, l’Ue si sentì irrilevante nella gestione della crisi, e di fatto lo fu, e per questo voleva fare un passo in più. “Il senso dell’allargamento dell’Ue ai Balcani va letto in due chiavi, una politica e una storica: quella storica sta nel fatto che, dai tempi degli ottomani, quando sono stabili i Balcani, allora è stabile anche l’Europa; quella politica è figlia dell’incapacità europea di gestire la disgregazione jugoslava e dal senso di colpa che ne nacque dopo la guerra”. La promessa dell’allargamento – e già qui si intuisce la sua fragilità – nasce dal senso di colpa. Ma l’Ue è cambiata tantissimo e se dopo Dayton viveva in un momento magico in cui credeva in se stessa, poi ha capito le sue debolezze e da possibilità l’idea di un allargamento si è trasformata in una minaccia. L’ambasciatore poi ci ha dato un elemento in più sulla crisi dell’allargamento: “Nel parlare della irrilevanza europea nei Balcani, parliamo soprattutto di un fallimento dell’Ue nei confronti di se stessa, e, per paradosso, della sua stessa balcanizzazione”. Per capire bene quanto poco sia nel cuore dell’Ue la questione dell’allargamento, poi basta andare a studiare chi è che se ne occupa.

Il “Voldemort dell’Allargamento”. Olivér Várhelyi, commissario ungherese per l’Allargamento, era la seconda scelta del premier Viktor Orbán. Il prescelto del premier per far parte della commissione della von der Leyen era stato bocciato dal Parlamento europeo: era una nomina troppo politica, l’allora ministro della Giustizia era molto controverso, Strasburgo lo bocciò, Orbán si infuriò, ma poi scelse Várhelyi, allora ambasciatore dell’Ungheria presso l’Ue, che era considerato molto esperto e un gran conoscitore dei meccanismi europei, ma anche uno con un caratteraccio, combattivo sì, ma aggressivo. Il Pe non poteva respingere un’altra candidatura, Budapest avrebbe gridato alla caccia alle streghe (cosa che fa comunque e sempre), così Várhelyi divenne infine commissario. Su un dossier, quello dell’Allargamento, che come abbiamo visto è quantomai delicato, perché riguarda la proiezione dell’Ue nel futuro, ma anche le sue attuali, e a volte permanenti, fragilità.  Várhelyi ha interpretato il suo ruolo con la postura tipica della leadership che lo ha nominato: con ostilità. Nei dossier per l’accesso all’Ue dei paesi dei Balcani, il commissario ha spesso ridimensionato le preoccupazioni sul rispetto delle regole dello stato di diritto. Soprattutto,  Várhelyi non ha fatto mistero del suo paese preferito, anche questa cosa inusuale: si tratta della Serbia, e poco importa se Belgrado non ha fatto passi avanti (anzi, secondo alcuni studi ha fatto dei passi indietro) nel suo viaggio verso la democrazia e il rispetto delle regole che tengono insieme l’Ue.  Alcune fonti anonime hanno raccontato di recente a Politico che  Várhelyi “svilisce la credibilità della Commissione” tra i paesi che vogliono entrare in Europa: lo chiamano “il Voldemort dell’Allargamento”. 

  

“L’irrilevanza dell’Unione europea nei Balcani è prima di tutto un fallimento nei confronti di se stessa”

  

Una cosa che ci piace molto dei Balcani, sono le statue. Ne abbiamo vista una di Bill Clinton in Kosovo e una di George Bush in Albania. Poi abbiamo incontrato Rocky Balboa in Serbia, Bruce Lee in Bosnia, a Mostar, dove però tutti, per fortuna, guardavano i tuffi dal ponte. Ci siamo imbattute in draghi, in statue della libertà, santi e cavalieri, ma abbiamo avuto la sensazione di un vuoto. Anche tra le statue manca l’Europa. Non che ci aspettiamo di vedere un giorno un monumento per Ursula von der Leyen e Charles Michel, che tanto si accapiglierebbero anche se fossero fatti di pietra: non ci aspettiamo tanto. Sappiamo accontentarci: basta anche solo una bandiera. 

   


(hanno collaborato David Carretta e Luciana Grosso)

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