Euporn - il lato sexy dell'europa

Quel ghiribizzo europeo che si chiama “belgitudine”

Paola Peduzzi e Micol Flammini

 La sfida a Euro 2020 con l’Italia ci ha portato dai Diavoli rossi e poi oltre, dentro a un paese che è fatto di caos, incontri e un’arte rara di convivenza

Tra i vari popoli della Gallia “i più forti sono i belgi”, scriveva Giulio Cesare nel De Bello Gallico, più di due mila anni fa. Poi il Belgio ha deluso le aspettative. Che altro dire di un paese che non è una nazione ma un progetto creato a tavolino come stato cuscinetto, al quale i governanti d’Europa dovettero trovare un monarca per evitare il caos delle repubbliche rivoluzionarie, un paese che più di recente l’ex presidente americano Donald Trump pensava fosse soltanto “una bella città”, i cui sport nazionali sono l’hockey su prato e i piccioni viaggiatori, un paese che regolarmente si ritrova senza governo per due anni, ma nel quale a gestire una pandemia sono nove ministri della Sanità? Il primo re scelto dalle altre monarchie europee, il duca Luigi di Nemours, rinunciò all’incarico. Da Leopoldo I nel 1831 a Filippo, oggi il monarca è “re dei belgi” e non del Belgio. Fu una decisione preveggente: 190 anni dopo l’indipendenza, fiamminghi e francofoni, le due principali comunità del Belgio, vivono in due mondi separati, ignorandosi o odiandosi reciprocamente a seconda delle stagioni. Nel 2007, quando nel giorno della festa nazionale una tv chiese al primo ministro dell’epoca di cantare l’inno nazionale, il fiammingo Yves Leterme si mise a cantare la Marsigliese, l’inno francese. A unire i belgi sono la birra, le cozze, le patatine fritte,  e una squadra di calcio che si ritrova in testa alla classifica mondiale e che da cinque anni permette di sognare di vincere i campionati europei o mondiali. 

 


Il Belgio è il paese con più nomi e più colori al governo. Si va dal viola al turchese. Dalla coalizione svedese alla Vivaldi


 

La sfida. Una ragione per questa eccellenza c’è, ce la siamo fatta spiegare in vista dello scontro con la nazionale italiana, per prepararci. Johan Walem è stato l’allenatore del Belgio under 21 fino al 2020 ed era il numero 10 della nazionale ai Mondiali del 2002: dopo quell’edizione, i Diavoli rossi (Diables Rouges in francese, Rode Duivels in fiammingo) per dodici anni non si sono più qualificati ai tornei più importanti. “Come abbiamo fatto a ricostruire? E’ un po’ un miracolo – ci dice Walem – perché talenti come Hazard e De Bruyne sono fuori dal comune. Ma soprattutto questo è il frutto della programmazione. Da anni i club stanno facendo un lavoro importante e di impronta internazionale, spingendo i giocatori a fare esperienza all’estero. Mentre la nostra Federcalcio ha iniziato a investire sistematicamente nelle infrastrutture e nei settori giovanili. Poi rispetto ai miei tempi c’è un valore aggiunto: la multiculturalità, finalmente accentuata e valorizzata. Abbiamo due lingue e messo da parte i vecchi dualismi”, come se il nucleo di origine extracomunitaria (dieci giocatori a Euro 2020: era uno solo nel 2002) abbia fatto da cuscinetto fra valloni e fiamminghi. Anche al di là del calcio: “Oggi il popolo belga si ritrova nella sua nazionale, senza distinzioni”. I Diavoli, con l’allenatore spagnolo Roberto Martínez affiancato dal francese Thierry Henry, sono la sintesi del loro paese che non è nazione, un miscuglio umano globalista, tutto il mondo dentro trentamila chilometri quadrati, allegro nonostante infinite tensioni, undici milioni di ex francesi ed ex olandesi, cattolici, musulmani, laici, atei e massoni, immigrati di vecchia data o appena arrivati.

 

La Belgitudine. La “Belgitudine” è stata efficacemente tradotta dal’Economist con: lo “zen belga”. E’ l’attitudine alla vita che ti permette di non prendere nulla troppo sul serio, né te stesso né gli altri, e di ridere dei peggiori drammi, compreso il pedofilo Dutroux o gli attentati terroristici del 21 marzo 2016, perché il Belgio è talmente surreale da essere come la celebre pipa di Magritte. Soltanto un professore di diritto costituzionale folle potrebbe apprezzare l’architettura istituzionale messa in piedi in Belgio negli ultimi cinquant’anni per tenere insieme, ma il più distanti possibile, i fiamminghi e i francofoni, i primi prevalentemente cattolici, i secondi con un’élite laica, cui si aggiungono 70 mila germanofoni nell’est del paese e milioni di migranti di prima, seconda e terza generazione, ciascuno con il proprio governo, a volte due, a Bruxelles addirittura tre, oltre a province e comuni e una miriade di organismi locali elettivi. C’è il governo federale, ci sono tre regioni (le Fiandre, la Vallonia e Bruxelles capitale), ci sono tre comunità (fiamminga, francofona e germanofona, ma quella fiamminga è integrata nella regione delle Fiandre) e ci sono la Cocof, la Cocom e la Vgf (le commissioni comunitarie o miste competenti per cultura, scuola e sanità a Bruxelles). Non è una piramide federale con un vertice che alla fine può permettersi di decidere anche a nome degli altri: tutte le entità federate sono parificate e devono trovare un compromesso tra loro. Il resto del mondo se ne è accorto nel 2016, quando la Vallonia ha bloccato la firma dell’Unione europea sul Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada. Alle riunioni dei ministri europei, il Belgio invia regolarmente due o tre rappresentanti. Dipende se la competenza è federale, regionale o comunitaria. Le diverse entità hanno un governo e un’assemblea eletta (o nominata), i propri funzionari, le loro priorità. Il “compromesso alla belga” è l’arte di conciliare l’inconciliabile su tasse, strade, treni, lingue, trasferimenti fiscali tra nord e sud del paese e riforme costituzionali che non finiscono mai.

 

Tutti i colori che vi vengono in mente. Il Belgio è il paese che ha le coalizioni con più nomi e colori al governo: viola (partiti socialisti e liberali), turchese (liberali e ecologisti), porpora (socialisti e cristiano-democratici), arancione-blu (liberali e cristiano-democratici), Giamaica (liberali, cristiano-democratici e verdi), sanguinello (liberali, cristiano-democratici fiamminghi e socialisti francofoni), lilla (liberali, cristiano-democratici e socialisti francofoni), svedese (liberali, nazionalisti fiamminghi e cristiano democratici fiamminghi), Vivaldi (socialisti, liberali, verdi e cristiano-democratici fiamminghi) e ovviamente arcobaleno (liberali, socialisti e verdi). Fiamminghi e francofoni hanno ciascuno i loro partiti socialista, liberale, cristiano-democratico, verde. Tutto è moltiplicato per due, con l’eccezione del Partito del lavoro del Belgio, l’unico nazionale, che comunque ha due nomi (Ptb in francese, Pvda in olandese) ma una sola ideologia marxista (il proletariato si unisce in tutto il mondo, mica lo si divide su base comunitaria). Il Belgio va in direzioni politiche opposte a livello regionale e comunitario. Le Fiandre sono sempre più a destra con gli indipendentisti della N-VA e l’estrema destra indipendentista del Vlaams Belang che si contendono il primo posto nei sondaggi. La Vallonia è decisamente a sinistra con il Partito socialista sfidato dall’estrema sinistra del Ptb. Con un sistema politico così, formare un governo federale è diventato quasi impossibile. Nell’ottobre del 2019, dopo le elezioni legislative, Charles Michel è stato nominato presidente del Consiglio europeo ed è stato sostituito per gli affari correnti da Sophie Wilmès. In piena pandemia, il 17 marzo 2020, Wilmès ha ottenuto la fiducia ma per un esecutivo di minoranza mentre proseguivano i negoziati per la formazione del governo. Solo il primo ottobre dello scorso anno il liberale fiammingo Alexander De Croo ha potuto giurare come primo ministro, alla testa di una coalizione maggioritaria, 494 giorni dopo le elezioni del 2019 e oltre 600 giorni la caduta del governo Michel.

 

Tutto va avanti. Sempre l’Economist ha definito il Belgio “lo stato fallito più di successo al mondo”. Nel suo caos istituzionale e politico, niente funziona ma tutto va avanti. L’amministrazione permea la vita quotidiana della gente, anche se ciascun livello di governo scarica la responsabilità sugli altri. Al comune di Bruxelles ci si deve mettere in fila alle cinque del mattino per potersi iscrivere all’anagrafe, alle sette distribuiscono i biglietti che si esauriscono subito, e chi non l’ha ricevuto torna a casa ed è costretto a riprovarci alle cinque del mattino successivo. David Carretta, il nostro insostituibile corrispondente a Bruxelles (che è mezzo belga e su Twitter ci aggiorna su “come funziona il Belgio” facendoci molto ridere), ci ha raccontato cosa è accaduto nella scuola dei suoi figli: il riscaldamento non funziona da un paio d’anni, la competenza è del comune, ma l’edificio è storico, anche la caldaia è un pezzo storico da conservare, e così la commissione comunitaria francofona e la regione non vogliono dare il permesso per sostituirla.

 


Bruxelles è la seconda città al mondo dove si parlano più lingue. Le identità si sommano, è come “una scatola di biscotti”


 

La pandemia. La pandemia di Covid-19 è il simbolo del fallimento e del successo del Belgio. Il paese è stato in cima alla classifica mondiale dei decessi. La ministra federale della Sanità, che aveva gestito le prime fasi, Maggie de Block, non ne aveva azzeccata una: distruzione di stock di mascherine scadute quando la pandemia stava per arrivare in Europa, sottovalutazione della minaccia, case di riposo lasciate senza materiale protettivo. Ma a ben guardare il Belgio non ha fatto peggio degli altri, semmai ha contato meglio i decessi rispetto al resto del mondo. Le autorità hanno deciso di classificare come decessi Covid-19 tutte le persone decedute nelle case di riposo, anche se non c’era un tampone a dimostrarlo. Alla fine l’eccesso di mortalità del Belgio è inferiore al numero di decessi di Covid-19 e in linea o inferiore a quello di altri paesi europei. Con numeri e proiezioni i belgi ci sanno fare. Questo ha permesso di gestire la seconda ondata e la variante Delta con un approccio più pragmatico. Il governo ha scelto di dare priorità alla scuola, che è rimasta aperta per tutto l’anno (dal 1 settembre fino a ieri, tranne nove giorni di prolungamento delle vacanze in novembre e febbraio). La politica “prima i bambini” ha sacrificato altri settori: i bar e i ristoranti sono rimasti chiusi da metà ottobre fino a maggio. Nello stesso periodo parrucchieri, barbieri e centri estetici hanno potuto aprire solo per pochi giorni. Lo smartworking era obbligatorio. Quando sono arrivati i vaccini, il Belgio ha deciso di somministrarli prioritariamente alla Rsa, prima ancora che al personale sanitario. Risultato: il paese ha registrato un calo dei decessi molto più rapido rispetto all’Italia. Oggi il Belgio è una storia di successo della vaccinazione, in cima alla classifica dell’Ue (con l’eccezione di Malta): il 76,2 per cento degli adulti e il 61,4 per cento dell’intera popolazione ha ricevuto almeno una dose; il 43 per cento degli adulti e il 34,5 per cento dell’intera popolazione è completamente vaccinata.

 

Bruxelles è la seconda città al mondo dove si parlano più lingue (oltre 200) dopo Londra. Se c’è una parola che può descriverla forse è “negoziazioni”. Perché quel che regola i comportamenti, le novità, le dinamiche dentro alla capitale belga non è tanto il compromesso, quanto la capacità di creare regole nuove e anche creare una cultura attorno a esse. A pensarla così è David Helbich, compositore e autore del libro “Belgian solutions”, una raccolta di foto che sono esempi di quello che Bruxelles è: la capacità di trovare sempre una soluzione. Helbich è tedesco, viveva ad Amsterdam, e ci ha detto che non poteva “pensare di vivere in un paese in cui avrei dovuto diventare parte della stessa identità. Poi ho scoperto che ci sono città, forse anche paesi, che hanno un’identità che è fatta di tutto”. E Bruxelles è una di queste, una capitale in cui la tua identità si aggiunge alle altre identità. “Invece di essere parte di una torta, solo un pezzo di torta, Bruxelles per me è una scatola di biscotti”. Non c’è una sola comunità, la sua identità è una somma. A cominciare dalla lingua, un inglese comune a tutti ma che ognuno parla a modo suo. “Quando parli una lingua che non è la tua, a fare la tua identità non è la tua lingua, ma l’accento che metti in una lingua straniera”. Tutto a Bruxelles è incontro, è compromesso, ed è anche quello strano modo di trovare soluzioni azzardate che si vedono sulle pagine del libro. Birilli piantati in una pozzanghera, finestre colorate in modo diverso, scale che portano a un muro: improvvisazione e movimento. La “Belgitudine” vuole che nulla sia davvero drammatico, se si vince si festeggia, se si perde si festeggia la sconfitta perché, in fondo, va bene anche così.


(hanno collaborato David Carretta e Francesco Gottardi)

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