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Il futuro di J.D.
Nella corsa per la successione a Trump il favorito è Vance, ma ci sono delle incognite
Il vice presidente si è trovato nel cuore del conflitto ideologico che sta dividendo le varie sfumature del fronte conservatore. Ma non ha ancora un’identità ben definita e la sua ideologizzazione radicale è strategia per riempire un vuoto. Così facendo però rischia di finire schiacciato nel mezzo
Il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha confidato ad alcuni suoi stretti collaboratori che un ticket in compagnia di J.D.Vance per le presidenziali del 2028 non gli dispiacerebbe. La considerazione è parsa un tentativo di inserirsi nella corsa alla successione di Donald Trump, il quale per parte sua continua a gingillarsi, almeno retoricamente, con l’idea di ingegneria istituzionale del terzo mandato. Difficile però, anche solo per motivi anagrafici oltre che per quelli costituzionali, che ci creda davvero. D’altronde negli ultimi mesi, mentre montava una sempre più furiosa guerra interna ai Maga, il presidente è parso disinteressarsene, mentre lo stesso non può dirsi del suo vice. E la scommessa di Rubio non appare casuale: è il tentativo di rivendicare, prima che altri possano avanzare simili pretese, la sua vicinanza a quello che sembra il naturale successore di Trump.
A confermare questa impressione c’è il cambiamento di postura dello stesso Vance. Fino a oggi Vance era relegato a un ruolo che appariva analogo a quello esercitato durante la presidenza Nixon da Spiro Agnew, metaforico “poliziotto cattivo” dagli accenti populisti spedito in lungo e in largo a rampognare ex alleati recalcitranti, a umiliare presidenti in visita istituzionale, come nel caso di Zelensky, o a rivendicare terre, come in Groenlandia. Ma qualcosa è poi cambiato, drasticamente. Se fino a pochi mesi fa Vance era solo quello dei meme, del “Have you said thank you once?” o delle lezioncine da poco prezzo sul free speech e sulla deregulation impartite agli europei nel febbraio 2025, ora c’è qualcosa di profondamente diverso.
Per Vance d’altronde mutare pelle è una caratteristica quasi esistenziale. Chiunque abbia letto la sua “Elegia americana” sa bene quanto e come l’ex marine, ex figlio degli Appalachi, ex studente di Yale, abbia cambiato nome, professioni e convinzioni religiose. Convertito di recente al cattolicesimo dopo una vita sospesa tra misticismo rurale e ateismo, Vance è passato al trumpismo dopo aver definito Trump un “Hitler americano”. E questa conversione è costata cara al suo mentore Peter Thiel che per convincere Trump a farsi affiancare dal suo protetto ed ex dipendente in Mithril Capital è stato costretto a finanziare pesantemente il Partito Repubblicano di area Maga, dopo la cocente delusione dell’esperienza del 2016. D’altronde passare dal considerare qualcuno un “Hitler” a definirlo un boss e una persona straordinaria non può essere semplicemente definito un ripensamento.
Il “nuovo” Vance, quello proiettato mentalmente all’idea di succedere a Trump, è emerso in concomitanza con la morte di Charlie Kirk e con l’apertura delle ostilità in seno alla destra americana. Dalla sera in cui ha condotto il podcast di Kirk, Vance si è trovato nel cuore tumultuante del conflitto ideologico che sta dividendo le varie sfumature del fronte conservatore. Ma, come sottolinea il Washington Post, l’attuale vice di Trump cammina sul ciglio del burrone perché deve tenersi in rigoroso equilibrio, senza scontentare troppo le varie sensibilità. Ma l’equilibrismo è arduo quando si danza gravati dal peso enorme dell’antisemitismo, dalle posizioni di Tucker Carlson e dal fantasma inquietante dei groyper di Nick Fuentes. Molti conservatori chiedono a Vance di prendere posizione e di schierarsi, ma dal palco di Turning Point USA (l’organizzazione fondata da Kirk), lo ricorda Politico, Vance si è guardato bene dal farlo.
Il limite per lui invalicabile è il prendere le distanze da Carlson, figura sempre più indigesta per vasta parte dei conservatori. D’altronde uno dei figli di Carlson, Buckley, lavora nell’ufficio stampa del Vicepresidente e il rapporto tra i due è consolidato. Vance non ha il carisma di Trump, non ha nemmeno un’identità ben definita e la sua ideologizzazione radicale è strategia per riempire un vuoto evidente. Ma così facendo si relega nel mezzo, dove rischia di finire schiacciato.
Ha un altro problema, poi. E paradossalmente è legato al suo mentore Thiel e alla società da questi fondata, Palantir. A fine novembre, in un colloquio con il consulente trumpiano Roger Stone, Vance ha confidato di essere preoccupato dal modo in cui i Maga vedono la società di analisi dei dati. E in effetti, glielo ha ricordato Joe Rogan, Palantir inquieta molti. E, allora, ecco che Vance escogita nemici esterni, alzando sempre di più la posta e i toni: l’Unione europea da sanzionare come fosse uno stato canaglia, la Francia e l’Inghilterra potenze nucleari islamizzate, l’Ucraina, la Danimarca. E si può essere certi che, all’approssimarsi delle elezioni midterm, andrà sempre peggio.
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