"La mia famiglia a Taipei"
La lotta di una bambina taiwanese contro "la mano del diavolo" in un film
Cosa succede quando tre generazioni di donne si ribellano a superstizione e tradizionalismo, in una città moderna e vibrante come Taipei? Ma in che epoca vivi, nonna, le ragazze non si fasciano più i piedi e i mancini sono ovunque. L'esordio in solitaria della regista e produttrice Shih-Ching Tsou al cinema
Pensavo che la mano del diavolo potesse aiutare”, giustifica I-Jing, una bambina di cinque anni che si è appena trasferita a Taipei con sua madre Shu-Fen e sua sorella maggiore, I-Ann. Ma in questa storia tutta taiwanese che attraversa quattro generazioni di donne non c’è nessun mogui, nessun diavolo, e la mano che secondo il nonno, figlio dell’epoca del Terrore bianco che “puzza di chou doufu”, tofu puzzolente, fa “il lavoro del diavolo”, è in realtà soltanto la mano di una ragazza mancina.
La “ragazza mancina” è il titolo originale del film, in cinese e in inglese, nelle sale italiane è uscito il 22 dicembre scorso con il titolo “La mia famiglia a Taipei”, vincitore del Premio per il miglior film alla Festa del Cinema di Roma 2025 e candidato taiwanese per il miglior film internazionale agli Oscar. La regista e produttrice taiwanese, Shih-Ching Tsou, vede se stessa nei panni di I-Jing: “Sono nata mancina e questo film è nato da qualcosa che mio nonno mi ha detto quando ero al liceo. Mi ha detto che la mano sinistra è ‘la mano del diavolo’ e mi ha chiesto di non usarla, anche se a quel punto non ero più mancina”, ha detto per raccontare il film, il suo primo lungometraggio in solitaria con l’aiuto del suo collaboratore di lunga data Sean Baker, il regista indipendente premio Oscar di Anora, che ha co-sceneggiato, prodotto e montato il film. “Quando ho incontrato Sean a un corso di montaggio nel 1999 negli Stati Uniti, gli ho raccontato quello che aveva detto mio nonno, e lui ha pensato che fosse un’idea meravigliosa per una storia proprio per questo concetto di tabù”, sul conformismo e la pressione sulle donne della società taiwanese. Per questo realizzare il film è stato “un atto di memoria e di guarigione”, ha detto.
Sin dai primi minuti Tsou riesce a trasportare cuore e mente nella vita vibrante e frenetica di Taipei, il traffico, le insegne luminose, il mercato notturno che non chiude mai e una casa un po’ più piccola delle aspettative, persino il ramen istantaneo ha un sapore unico, tanto da far venir voglia di mangiarlo tutti i giorni. “Sembra un posto magico”, dice sottovoce I-Jing senza essere ancora scesa dalla macchina, mentre rigira tra le dita il suo caleidoscopio, in completa sintonia con i colori della capitale taiwanese. Le tre donne iniziano a vivere la città in modi diversi ma complementari, tra scuola, un negozio a luci rosse che vende noci di areca e un chiosco di noodles nel mercato notturno di Taipei, corrono tra le strade, i vicoli, seguite non da una macchina da presa ma soltanto da un iPhone: non è la prima volta che Tsou e Baker girano un film interamente con un telefono, lo hanno già fatto nel 2015 con Tangerine – sempre per problemi di budget.
La quarta generazione è rappresentata dalla nonna matriarca, Xue-Mei Wu, che gestisce un losco traffico d’immigrazione dagli Stati Uniti con dei “preziosi” passaporti fasulli, ha occhi soltanto per il figlio maschio della famiglia, non batte ciglio quando durante una litigata familiare in cui tutti si danno le colpe a vicenda suo marito ferma la conversazione e dice: perché la più piccola della famiglia mangia con la mano sinistra? Il film si districa in una continua lotta tra senso del dovere in una società ancora patriarcale e il desiderio di tre ragazze moderne, in una città che non rispecchia più la mentalità tradizionalista dei nonni – e ogni tanto anche della madre Shu-Fen, in bilico tra passato e futuro. Neanche I-Jing, il personaggio più giovane e puro della famiglia riesce a restare immune al senso di “disonore” e di diu mianzi, perdere la faccia, ancora vivo nella società taiwanese, come in quella cinese, dice la stessa Tsou che definisce sua madre la “classica mamma tigre”.
Così a soli cinque anni, le parole del nonno rimbombano nella sua testa a tal punto da farle venire la tentazione di scacciare quel demone con un grande coltello da cucina, poi di fasciare la mano sbagliata con un fazzoletto colorato pur di non vederla più e cercare di non usarla, o iniziare a rubare qualche giocattolo e dare tutta la colpa a quel mogui. Ma quando la nonna dice a Shu-Fen, che ha un disperato bisogno di soldi per pagare i debiti dell’ex marito: “Una figlia sposata è come l’acqua che viene versata via”, non vale la pena trattarla bene, allora il fazzoletto colorato viene strappato via con forza, I-Jing prende di nuovo facoltà della mano sinistra e ruba un oggetto “prezioso”. Improvvisamente la “mano del diavolo” secondo il nonno diventa la “mano di Dio” per la nonna, la bambina improvvisamente “la nipote preferita”, ma anche in questo caso è soltanto egoismo e superstizione. Ma in che epoca vivi?, le donne non si fasciano più i piedi, e i mancini sono ovunque, rimprovera I-Ann al nonno. E tu, smettila di confonderla, dice alla nonna. “E’ la tua mano”, punto, dice alla sorella, ma anche un po’ figlia, con cura e protezione.