La Cina e la prova Nigeria dopo i raid americani

Giulia Pompili

La “building diplomacy” non basta quando la crisi è sicurezza e jihadismo

A poco più di due mesi dall’annuncio della Casa Bianca di Donald Trump di voler intervenire in Nigeria per fermare la persecuzione dei cristiani, le minacce si sono trasformate in azione – sotto forma di più di una dozzina di missili da crociera Tomahawk lanciati da una nave della Marina militare americana dal Golfo di Guinea, che avrebbe colpito due campi dello Stato islamico nello stato di Sokoto, nel nord-ovest della Nigeria. All’inizio di novembre il ministero degli Esteri di Pechino aveva manifestato la sua contrarietà a un intervento americano, ma ieri è rimasto silente.


La Nigeria, con cui la Cina da anni costruisce una relazione di interdipendenza, rischia di essere l’ennesimo test fallito della diplomazia di Pechino: come per il Venezuela, i paesi che si rivolgono alla Cina in cerca di protezione o anche solo di mediazione restano spesso delusi. Poco meno di due mesi fa Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri cinese, aveva detto di opporsi “a qualsiasi paese che utilizzi la religione e i diritti umani come pretesto per interferire negli affari interni di altri paesi”, e che in qualità di partner strategico della Nigeria, la Cina sosteneva “il governo nigeriano nel guidare il suo popolo”. Ma ieri Pechino non ha commentato in alcun modo i raid americani. Ieri pure l’influente religioso musulmano nigeriano Ahmad Gumi ha chiesto al presidente della Nigeria, Bola Tinubu, di interrompere “immediatamente” ogni cooperazione militare con gli Stati Uniti, e in un messaggio su Facebook ha detto che se serve aiuto militare sarebbe meglio chiederlo “alla Cina”, oppure “alla Turchia o al Pakistan”. Ma per Pechino l’estremismo islamico è un ostacolo alla cooperazione economica con la Nigeria, anche se il principio di non interferenza e la scarsa tradizione di diplomazia internazionale le impedisce un coinvolgimento attivo nelle crisi internazionali, che rischia di mettere in discussione l’immagine che Pechino vorrebbe costruirsi tra i paesi del sud globale.

 

La Cina è guidata dall’interesse nazionale e dai vantaggi strategici: la Nigeria è fondamentale per la Cina per la produzione di litio, e per conquistare i favori del governo nel 2022 Pechino ha iniziato la costruzione della nuova sede dell’Ecowas ad Abuja, un edificio da 32 milioni di dollari che fa parte della cosiddetta “building diplomacy”, di cui fa parte anche la sede dell’Unione africana di Addis Abeba: donazioni che “creano canali di influenza e potenziale sorveglianza”, secondo alcune analisi. Il messaggio è chiaro: se si tratta di miniere, Pechino c’è, ma per il terrorismo islamico e il banditismo rivolgetevi altrove. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.