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Narrazioni, minacce e affari

Così gira nel mondo la ruota prepotente degli imperi

Siegmund Ginzberg

La strategia americana rivela una verità già nota: tutto, oggi, è negoziabile, purché al giusto prezzo. Stati Uniti, Russia e Cina si spartiscono la Terra. L’Europa? Sacrificabile           

Le tirate di Trump e dei suoi ideologi, e quelle di Putin e dei suoi ideologi, convergono su una cosa: nel dare addosso all’Europa. Due dei maggiori imperi, quello americano e quello russo, nemici giurati sino ad un attimo prima, se la prendono con l’Unione europea, che impero non è. Un terzo impero, la Cina di Xi Jinping, l’Europa non se la fila per niente. America e Russia, Cina e America litigano (o fingono di litigare, per meglio mettersi d’accordo). Sono potenze nucleari. Potrebbero anche finire col venire alle mani  di brutto. Ma al momento paiono piuttosto propensi ad accordarsi per dividersi il mondo, in combutta fra di loro.

Tre imperi veri, e un outsider schiacciato dai tre. Sul finire del secolo scorso Reinhard Brandt aveva pubblicato un suggestivo saggio filosofico. Si intitolava "D’Artagnan o il quarto escluso. Su un principio d’ordine della storia culturale europea 1-2-3/4" (Feltrinelli 1998). L’Europa è finita a ritrovarsi, suo malgrado, nel ruolo di “quarto escluso”. E’ frastornata. Comprensibile lo sia. Lo sarebbe anche D’Artagnan, se da un momento all’altro, anziché “tutti per uno, uno per tutti” contro le mene del Cardinale, si ritrovasse solo, abbandonato, con tutti e tre i moschettieri contro.

Tutti gli imperi che si rispettino hanno una loro narrazione. Che non è immutevole. Cambia secondo le circostanze, gli interessi del momento, le correzioni di rotta strategiche, talvolta i capricci delle rispettive leadership. Può cambiare gradualmente, o all’improvviso. L’avversione americana all’Europa ha radici remote, bipartisan. Esempio, famoso il “You know, fuck the EU”, intercettato nel 2013 a Victoria Nuland, portavoce dell’allora segretaria di Stato Hillary Clinton. Già allora il battibecco aveva a che fare con l’Ucraina. Ma le posizioni erano rovesciate. Gli Stati Uniti accusavano l’Europa di essere troppo accomodante con la Russia. Ora Trump la accusa di essere troppo aggressiva, senza averne, peraltro, i mezzi. Ha una leadership “debole”, che sta praticando un “suicidio di civiltà”. L’Europa, sedotta e abbandonata, viene ufficialmente sbeffeggiata, indicata come il principale ostacolo alla pace, nonché agli interessi americani.

Il documento sulla National Security Strategy dell’amministrazione Trump è un esempio di cambio qualitativo nella narrazione. Un primo interrogativo si impone: va preso sul serio? E fino a che punto? L’interrogativo si potrebbe estendere a tutte  le “narrazioni” che gli imperi prepotenti danno delle crisi in corso. Ci sono o ci fanno? Segnalano rovesciamenti epocali di strategia, o sono smargiassate propagandistiche che lasciano il tempo che trovano? 

Chi scrive è persuaso che sarà meglio prendere sul serio le cose che dicono, non dare per scontato che siano fanfaronate. Le narrazioni imperiali vanno studiate con attenzione. Non sono mai solo favole. Anche se va fatta la tara sugli elementi di posture, di pura gesticolazione, a fini di intimidazione, o di polemica e propaganda interna. L’amica Antonella Ottai, autrice di "Ridere rende liberi" (Quodlibet 2016), sui comici ebrei finiti nei campi di sterminio nazisti, ricorda lo sketch che negli anni Trenta, prima che diventasse cancelliere Hitler, Kurt Robitschek e Kurt Lilien recitavano ogni sera nel più importante cabaret di Berlino. L’uno chiede all’altro, visto come si stanno mettendo le cose, se non sia il caso di darsi una mossa e correre ai ripari. – E perché mai dovrei? – E mi chiedi perché mai? Tu l’hai letto il Mein Kampf? insiste il primo. – Io non leggo libri cattivi, la risposta. Dei due comici ebrei, quello che sulla scena diceva di averlo letto il Mein Kampf, nel ‘33 era scappato in America. L’altro, che diceva di non curarsene perché gli faceva schifo, finì invece ucciso nel campo di sterminio di Sobibor. 

Ebbene, il documento di Trump è un po’ come il Mein Kampf di infausta memoria. Anticipa, sia in modo affastellato, le intenzioni. Dice quello che i nazisti avevano intenzione di fare: far la Germania grande di nuovo, creare un impero, un Reich millenario. Considerarlo solo un delirio passeggero, un cumulo di sciocchezze, non giovò. 

La situazione internazionale era confusa. Quanto e più di quella attuale. Una doccia fredda, una guerra dopo l’altra. Compresa quella che uno storico di destra, Ernst Nolte, ha definito come “la guerra civile europea”, tra comunismi e fascismi. Una crisi economica epocale, mondiale. Con tentativi di uscirne in direzioni diverse, diametralmente opposte. O invece, sotto sotto, più simili di quanto appaia, come ha suggerito un altro studioso tedesco, Wolfgang Schivelbusch, nel suo 3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e  La Germania Di Hitler 1933-1939 (Tropea 2008). 

Negli anni Trenta le alleanze, e le relative narrazioni, erano più volte cambiate. Si erano rovesciate per l’ennesima  volta, a strettissimo giro, tra 1939 e 1941. Il patto tra Hitler e Stalin aveva colto di sorpresa tutti. Era stato accolto con sgomento da chi, a sinistra, per decenni aveva dedicato l’impegno e la vita nella convinzione che lo scontro fosse tra comunismo e fascismo. L’accordo segreto tra Germania e Unione sovietica per spartirsi Polonia e le “terre di sangue” dell’Europa centrale aveva dato inizio alla Seconda guerra mondiale. Stalin aveva umiliato i comunisti francesi chiedendogli di applaudire le truppe naziste che entravano a Parigi. Poi, altrettanto all’improvviso, due anni dopo, Hitler aveva invaso la Russia. E la narrazione era cambiata di nuovo. Una nuova, provvidenziale capriola portò all’alleanza di Inghilterra, America e Unione sovietica per contenere l’impero che Hitler imponeva manu militari in Europa. E dire che, ancora poco prima di scatenare la guerra, Hitler si presentava come “uomo di pace”. Un deputato socialdemocratico svedese aveva proposto ironicamente di assegnargli il Nobel per la pace del 1939. Quell’anno il Nobel per la pace non fu assegnato a nessuno. 

C’è una quantità sterminata di studi sul perché e percome di quel doppio salto mortale. Stalin cercò da subito di far dimenticare il Patto. La nuova narrazione si chiamava “guerra patriottica”, contro l’invasore nazista. Si sarebbe dovuto attendere la glasnost di Gorbaciov perché Mosca ammettesse che era stata la NKDV sovietica, non le SS, ad ammazzare gli ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyn. Putin si guarda bene dal rievocare la vicenda. Rovistando negli archivi, una studiosa tedesca, Claudia Weber, ha riaperto il caso arrivando alla conclusione che quella collaborazione tra le due dittature non fu un episodio marginale. Tra le scoperte più agghiaccianti, i rapporti sui profughi – ebrei, polacchi, ucraini – che nel primo inverno di guerra vagavano tra la zona di occupazione tedesca e quella sovietica. Vegetavano nelle strade delle città di confine, distrutte dai combattimenti, nei boschi e nelle paludi. Spinti dai tedeschi nelle acque gelide dei fiumi di confine, venivano mitragliati dalle guardie tedesche sulla sponda opposta. Non servì che alcuni dei profughi avessero pagato somme esorbitanti ai trafficanti per attraversare in barca i fiumi, di notte.  

Il documento sulla National Security Strategy non si cura di profughi, civili intrappolati nei conflitti. Anzi indica come origine di tutti i mali “l’incontenibile flusso delle migrazioni di massa”, cioè chi cerca di salvarsi da guerre e povertà. Sciagura frutto del colpevole “buonismo”, peloso e interessato, dell’Europa e dei democratici americani. In realtà, non dice nulla che Trump e i suoi non abbiano già detto in precedenza. L’affondo alle istituzioni europee era venuto forte e chiaro già alla prima uscita del vicepresidente J. D. Vance, alla conferenza sulla sicurezza, lo scorso febbraio a Monaco. Non potevano scegliere luogo più evocativo: la città che, nel 1938, aveva ospitato l’altra, assai più celebre conferenza “di pace” che diede il via libera alle pretese di Hitler sulla Cecoslovacchia. Parevano iperboli, intemperanze propagandistiche ad uso interno. E invece erano un programma. 

Il documento mette insieme cose più volte dette e ripetute. E’ un manifesto ideologico affidato a un manipolo di teorici del Make America Great Again. Contiene molte cose alla rinfusa. Così come un polpettone indigeribile era, a suo tempo, il Mein Kampf.  Si tratta di una compilazione. Lo stile e l’impostazione mi fanno venire in mente anche un’altra celebre raccolta di pensieri: il Libretto rosso di Mao. Identico, assolutamente evidente, l’intento di compiacere il capo. Nessun altro precedente documento strategico americano aveva citato così profusamente e in modo tanto adulatorio il presidente in carica. Il Libretto rosso, agitato da milioni di mani di guardie rosse, era una trovata dell’allora vice e successore designato del Grande Timoniere, Lin Biao. Diffuso in centinaia di milioni di copie (rilegate con una copertina di plastica rossa che aveva fatto la fortuna della Montedison), aveva ingorgato la Cina di allora, le università d’occidente in rivolta nel ‘68, e persino alcuni dei più brillanti cervelli occidentali. Serviva a una guerra interna, in seno al gruppo dirigente cinese, non a uno scontro internazionale. Per Lin Biao, che pure era riuscito a eliminare i rivali alla successione, finì male. Mao fece abbattere l’aereo su cui Lin fuggiva verso l’allora arcinemica Unione sovietica. Non possiamo sapere che fine farà Vance.

Il Trump-pensiero appare assolutamente maoista anche nel merito. E non solo nel modo in cui promuove un culto della personalità. Riecheggia una concezione del mondo come grande torta da spartirsi tra le maggiori potenze, le maggiori “civiltà”. Già in una poesia del 1935, dedicata al monte Kunlun, il massiccio nevoso che domina il centro dell’Asia, e su cui si affacciano tutti gli imperi, Mao aveva enunciato la sua particolare concezione di un mondo tripolare: “Potessi brandire la mia spada sino al cielo, / ti taglierei in tre pezzi: / uno per l’Europa, / uno per l’America, uno lo terrei qui in Oriente. / E allora regnerebbe la pace nel mondo, / lo stesso calore e lo stesso freddo su tutta la Terra”.

Meno poetico di Mao, Donald Trump concepisce anche lui il mondo in termini di spartizione tra civiltà, imperi, ciascuno dei quali domina la rispettiva sfera di influenza. “Sfere d’influenza” è termine che trae origine dalla Conferenza di Berlino del 1884-85, nella quale le potenze europee si erano accordate per spartirsi l’Africa. Salvo dilaniarsi poi nell’immane massacro, l’“inutile strage” della Prima guerra mondiale. C’è chi evoca piuttosto un ritorno a Yalta 1945, dove Roosevelt, Stalin e Churchill si spartirono l’Europa e il resto del mondo. Non è la stessa cosa di oggi. Quelli allora avevano vinto la Seconda guerra mondiale. Qualcuno finì sacrificato. Ma garantì molti decenni di pace, e anche di prosperità, per l’Europa che era stata crudelmente spartita.  

Cambiano i convitati al gran banchetto. “America first”, naturalmente, “in tutto quello che facciamo”. Poi la Russia, armata sino ai denti di missili atomici e quant’altro. Ragione per cui non è certo il caso di farle la guerra. Ma impedire che sia la Russia a farla a noi comporta essere capaci di dissuaderla, non solo di rabbonirla. Se lo si fosse fatto a tempo debito, e in modo credibile, quando Putin si prese la Crimea, forse non ci sarebbe stata nemmeno l’invasione dell’Ucraina. La Russia pesa economicamente e demograficamente molto meno degli altri imperi. Ma l’America di Trump e la Cina sanno che con la Russia si possono fare lo stesso proficui affari. Quanto alla Cina, nessuno, nemmeno l’America può pensare di farle la guerra e vincerla. Nemmeno una guerra commerciale frontale. Trump ci aveva provato, ha dovuto fare marcia indietro.

Il succo della nuova narrativa americana è che con Russia e Cina si può negoziare, e lasciargli le rispettive sfere di influenza. Purché non minaccino gli interessi americani, a cominciare dagli interessi economici, e in modo specifico gli interessi degli amici e della base elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca. Rispetto a tutte le precedenti narrazioni americane, non si parla più di “leadership del mondo libero”, di difesa della democrazia e degli alleati. Si parla di interessi concreti, materiali, di “profitto” in soldoni. Tutta la politica internazionale di Trump è concepita dichiaratamente in termini di costi e ricavi, di guadagni e di affari. I dazi sarebbero una manna per il Tesoro Usa, impoverito dai regali fiscali. Non passa discorso in cui Trump non dica al suo popolo che difesa e futura ricostruzione dell’Ucraina sono interamente a carico degli europei, che le armi non saranno più regalate ma vendute, e “a prezzo pieno”, senza sconti.

Nei secoli passati ci si era scannati in guerre di religione. O in guerre per la conquista di territorio e mercati. La guerra fredda era stata anche un conflitto di ideologie. Il mondo di Trump è governato invece come un consiglio di amministrazione, che considera bilanci, acquisizioni, profitti presenti o futuri. E se ne frega dei principi morali. Non è più scontro tra occidente e oriente. Non è più la vecchia egemonia. Le strategie, anche quelle militari, sono dettate da una nuova geografia, così come fu all’epoca delle grandi scoperte marittime. Degli antichi imperialismi restano sì i presupposti territoriali, l’ossessione per le materie prime (non più solo petrolio e acciaio, ma le terre rare, e le risorse intangibili in know-how, ricerca e conoscenze scientifiche). Resta la lotta per il controllo delle rotte commerciali. La nuova versione rafforzata della ottocentesca “dottrina Monroe” (“L’America agli americani”) non si applica solo al Venezuela, alla maniera in cui in passato si applicava a Cuba, al Cile o al Nicaragua. Si estende a Panama, da dove si controlla il Canale, e al Canada ex britannico e alla Groenlandia ancora danese, che controlla le nuove rotte polari rese possibili dallo scioglimento dei ghiacci. Non esattamente l’isolazionismo d’antan. “Interventismo selettivo”, lo definisce qualcuno.

“Gli affari degli altri Paesi ci interessano solo se la loro azione minaccia direttamente i nostri interessi”. “Perseguiremo buone relazioni […] senza imporre un’evoluzione verso la democrazia o altri mutamenti sociali”. “La nostra è una predisposizione al non-interventismo”. Quindi, “niente più altri decenni di guerre infruttuose di nation building”. Così recita il documento. Traduzione: della democrazia degli altri non ci importa un fico secco. E del resto gli importa poco anche della democrazia americana. Per i nuovi padroni è un ostacolo fastidioso, hanno già cominciato a snaturarla.

A Putin e a Xi Jinping la nuova dottrina americana non dispiace affatto. Comporta che anche i loro imperi abbiano mano libera nelle rispettive sfere d’influenza. Putin si è accortamente premurato di chiarire, prima ancora dell’incontro in Alaska, che considera storicamente giustificate le pretese di Trump su Canada e Groenlandia. Non ha obiezioni a che gli Stati Uniti facciano il bello e cattivo tempo in America latina. Purché non ostacolino le ambizioni della Russia su ciò che fu un tempo parte dell’impero zarista, e in tempi più recenti parte dell’impero staliniano. Le conseguenze logiche sono evidenti: se l’America si prende Canada e Groenlandia, fa una dependance del Messico e dell’Argentina, un domani non lontano magari anche del Brasile, perché mai la Russia non dovrebbe accampare diritti di influenza sull’Ucraina, gli Stati baltici, la Polonia e l’Europa centrale che un tempo faceva parte del Patto di Varsavia? E perché la Cina non dovrebbe un giorno prendersi Taiwan, a cui, a differenza di quanto fece la Russia di Eltsin con l’Ucraina, dopo il crollo dell’Urss, non ha mai rinunciato? Tutto diventa negoziabile. Anche la sorte degli amici o degli alleati. Purché il prezzo pattuito sia congruo.


In questo quadro, l’Unione europea è expendable, spendibile, sacrificabile. Al pari dell’Ucraina. Anzi, se si riuscisse a togliere di mezzo un’entità da sempre sgradita all’America, a dividere e fare a pezzettini l’Europa unita, tanto di guadagnato. Sarebbe prendere due piccioni con una fava. Nel gran documento strategico si parla di Europa, ma non si menziona mai, nemmeno una volta, l’Unione europea. Trump ci aveva già detto che l’Unione europea “è nata per fregare gli Stati uniti”. Il suo vice che siamo “scrocconi” – free riders – che pretendevano di essere difesi senza cacciare un soldo. “Ci hanno derubato per tanto tempo”, “Ci hanno trattato male”. Adottano politiche “totalmente contrarie agli interessi Usa”, sono indulgenti verso il “fanatismo ambientalista”, l’estremismo woke (la nuova consapevolezza delle ingiustizie e delle discriminazioni sociali, razziali, di genere, di libertà sessuale e affettiva). La colpa peggiore degli europei è l’indulgenza verso la iattura delle iatture, gli immigrati indesiderati.

C’è un’impressionante compatibilità tra la narrazione trumpiana e quella di Putin. Per Sergei Karaganov, considerato uno dei cervelli geopolitici di Putin, “il vero nemico della Russia è l’Europa”. E’ ora di smettere di essere ingenui e pensare che l’Europa possa essere un fattore di pace. “La guerra con l’Europa è già iniziata, anche se non la chiamiamo ancora così”.  L’Unione europea sarebbe un’accozzaglia di stati in mano a élites “irresponsabili”, “rabbiose” “imbastardite”, “abbrutite”  e “corrotte”, che si reggono sul consenso di una popolazione “intossicata” dalla propaganda antirussa. Solo “la messa in atto delle minacce nucleari li ricondurrà, forse, alla ragione”.  La tanto vantata “democrazia” europea non sarebbe che una trovata dei “plutocrati” per continuare a governare, anzi tiranneggiare i rispettivi paesi.

La propaganda nazista degli anni Trenta dava la colpa di tutto alla democrazia corrotta della Repubblica di Weimar. Dava addosso a plutocrati, banchieri internazionali, bolscevichi, alla sinistra socialdemocratica (tutti “marxisti” ai loro occhi), e soprattutto agli ebrei.  Li accusava di nutrire un odio irreprimibile e di complottare verso la Germania, di voler imbastardire con la sostituzione etnica la purezza della razza germanica, anzi di voler “sterminare” il popolo tedesco. La Francia veniva accusata esattamente dello stesso peccato di cui ora si accusa l’Europa: di accogliere indiscriminatamente immigrati da ogni angolo del mondo, ebrei, gialli e neri, di imbastardire irrimediabilmente la razza bianca. I nemici hanno cambiato nome. Ma la triade di nemici giurati della Russia denunciata dagli ideologi di Putin sembra una copia carbone degli slogan del Terzo Reich.

C’è convergenza piena tra Trump e Putin anche nell’assecondare l’ondata mondiale che spinge a destra. All’uno e all’altro piacciono le destre, specie se estreme: Alternative für Deutschland in Germania, il Rassemblement national lepenista in Francia, il Reform Uk di Nigel Farage in Gran Bretagna, gli amici Orbán e Fico in Ungheria e in Slovacchia e compagnia bella. Tra populisti di destra ci si intende. Li colmano di lodi, e anche di sovvenzioni. Gli piacciono coloro che vorrebbero riportare l’Europa sulla retta via, illiberale e autoritaria. Né a Trump né a Putin importa che alcuni di questi loro nuovi amici europei rivendichino, più o meno esplicitamente, discendenze dal fascismo e dal nazismo. Basta siano propensi a smantellare l’Unione europea. A far premio, prima ancora degli interessi politici ed economici,  è l’affinità ideologica col trumpismo.

L’impero di Xi Jinping, a differenza degli altri due, non ce l’ha con l’Europa. Semplicemente la ignora. E’ difficile immaginare che gli stia a cuore il futuro della democrazia all’europea. Perché mai dovrebbe? La Cina non è una democrazia, è un impero autoritario, erede degli imperi millenari, che si ritrova a essere governata dall’ultima delle dinastie imperiali, quella inaugurata da Mao. L’Europa gli è  indifferente. Un’Europa incapace di tener testa all’America, di avere una propria autonomia non gli serve. Gli serviva quando, nel secolo scorso, l’Europa era un fattore di equilibrio nei confronti della prepotenza sovietica, e in qualche misura nei confronti della prepotenza americana. Con la Russia di Putin ormai la Cina è in grado di vedersela da sola. Anzi, ce l’ha in pugno. Non ha probabilmente alcuna fiducia che questa Europa possa resistere al ricatto americano: o fate affari con noi o li fate con i cinesi. Abbiamo abbozzato. Non è bastato a farci dare la grazia da Washington, né sui dazi, né sul resto.

La Cina non è buona o cattiva. Ha sempre fatto e continuerà a fare i propri interessi. Rivendica il suo ruolo imperiale ”al centro del mondo”. A me è incomprensibile come sia passata senza colpo ferire, o anzi resti dominante, la narrativa sul pericolo cinese, l’invasione cinese, e via dicendo. E il conseguente assioma per cui l’Europa e America dovrebbero unirsi come un sol uomo per contrastarlo. Non ha senso. Così come non convince la contro-narrativa cinese per cui sarebbe la Cina il vero campione del libero commercio, del salvataggio del clima, della stabilità globale, sin da quando nel 2008 ci salvò dal crollo. Così fan tutti, a cantar virtù, direbbe Mozart. La Cina è un impero permaloso. Si offende facilmente con chi sgarra, dice o fa qualcosa che non le piace, su Taiwan o sulle prerogative imperiali di Pechino. Sa minacciare e punire, che si tratti di Giappone o di Australia, di Corea del Sud, di Filippine o di Vietnam. Ma militarmente la Cina non è una minaccia per l’Europa. La potenza economica cinese ci domina già comunque, ci piaccia o no. Il decoupling è un’utopia impraticabile. Per l’Europa come per l’America.

Nella nuova versione del Risiko, del Monopoli planetario, vince chi sopravanza gli altri nel controllo le nuove tecnologie. Ma siccome tutto si tiene, ciascun impero è dipendente anche dall’altro. Non c’è possibile decoupling, autarchia, a meno di non pagare un prezzo altissimo. A fare la faccia feroce con la Cina sui dazi Trump ha dovuto rinunciare già lo scorso ottobre, quando Pechino aveva deciso per ritorsione la sospensione delle esportazioni strategiche, delle terre rare. Bon gré mal gré, con la Cina anche il focoso Trump non può fare a meno di un compromesso. Anzi, c’è, tra i commentatori, chi nel documento sulla strategia vede una confessione di impotenza, il riconoscimento della necessità di un’intesa con la Cina.

Ronald Reagan ce l’aveva con “l’impero del Male” sovietico. George Bush e i suoi ideologi neo-cons ce l’avevano, dopo l’attacco alle Torri gemelle, con i terroristi e gli “stati canaglia”. Nixon aveva aperto a Mao per contrastare la minaccia sovietica, certo non per dare in pasto a Breznev l’Europa occidentale. Ora è cambiata la morale della favola. E’ finita l’èra in cui l’America si ergeva a leader del “mondo libero”.  Dimenticata la “Buona guerra” per definizione, quella con cui l’America aveva liberato l’Europa dal nazifascismo. Dimenticato pure il tripudio con cui avevano accolto e rivendicato la caduta del Muro e del comunismo. Trump non ce l’ha con i più minacciosi. Ce l’ha con i perdenti, con quelli che ritiene siano i più deboli. E’ pronto a trattare, a fare la pace, e soprattutto a fare affari con i forti. Bastona il cane che è finito in acqua, come recita l’antico detto cinese. Gli uomini forti disprezzano i losers, i perdenti. Mediare, per Trump, vuol dire stare dalla parte del contendente che sta vincendo. Così ha fatto finora per tutte guerre che vorrebbe far finire, anzi, si vanta di avere già fatto finire. Ben venga la narrativa brutale, se ci può dare la sveglia. 

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