Un momento dell'attacco americano in Nigeria con il lancio di un missile Tomahawk 

i rischi per l'occidente

L'attacco in Nigeria è anche un messaggio ai golpisti del Sahel

Luca Gambardella

La mente dell’Isis che pianifica attacchi in occidente si è spostata in Africa. Cosa lega l'attacco di Natale alla guerra sottotraccia in Somalia, al raid in Siria e agli arresti in Turchia e Marocco

Lo scorso gennaio, vicino a Casablanca, la polizia marocchina sgominò una cellula dell’Isis composta da quattro persone. Si facevano chiamare “Leoni del Califfato nel Magreb e al Aqsa” e pianificavano un attentato in Spagna, dove nel frattempo altre cellule collegate erano state eliminate dalla Guardia Civil, a Ceuta e Siviglia. Gli inquirenti rimasero sorpresi nello scoprire che i componenti del gruppo avevano ricevuto ordini dalla Provincia dell’Isis nel Sahel, che aveva pianificato attacchi terroristici nel paese europeo. Una tendenza insolita, che dimostrava come la geografia del jihad stesse cambiando e come zone un tempo periferiche fossero diventate il cervello dell’Isis. Una dinamica simile a quella che gli americani temono prenda piede in Nigeria. 

Nel nord del paese, lo Stato islamico non è più solamente una minaccia, ma una realtà che controlla ampie porzioni di territorio, nelle foreste che confinano con il Benin, nel nord e nel nord-ovest. L’attacco della scorsa notte ha preso di mira in particolare i Lakurawa, un gruppo affiliato all’Isis attivo fra Niger, Mali e Nigeria, nello stato di Sokoto. “Diversi gruppi armati operano nella Nigeria nord-occidentale. I più numerosi sono bande di banditi locali, che combattono principalmente per il territorio e la ricchezza e non sono guidati da un’ideologia religiosa in sé, eppure hanno perpetrato orribili violenze contro le comunità locali”, spiega al Foglio James Barnett, ricercatore dell’Hudson Institute. “Nella regione operano anche gruppi jihadisti, tra cui quelli provenienti dai vicini stati del Sahel. Tra questi, ci sono membri dello Stato islamico della Provincia del Sahel e di Jnim, l’affiliato di al Qaeda nel Sahel”.

 

La guerra al jihad nel continente mira a recidere le connessioni transfrontaliere che possano nuocere all’occidente. Basti guardare a cosa succede da anni nell’ultima estremità del Corno d’Africa, dove il piccolo stato somalo del Puntland era diventato una delle preoccupazioni più grandi del Pentagono. Tra le montagne di Cal Miskaad, la provincia locale dello Stato islamico è riuscita a diventare il principale hub finanziario del gruppo terroristico, da dove ordinare attacchi coordinati a migliaia di chilometri di distanza, anche fuori dalla Somalia. Sotto il comando di Abdulkadir Mumin, in questo lembo di terra sono arrivate reclute con un’elevata specializzazione nell’uso di nuove tecnologie, capaci di finanziarsi anche con investimenti in criptovalute. A partire dal 2020, questo gruppo di poche centinaia di miliziani è diventata la cabina di regia delle operazioni dell’Isis in Africa, la mente dell’espansione jihadista in Mozambico, Kenya, Sudafrica, Uganda, Congo e altrove. Caleb Weiss, ricercatore della Bridgeway Foundation, ha contato oltre 115 attacchi americani in Somalia dall’inizio dell’anno diretti contro l’Isis, ma anche contro al Shabaab. Numeri senza precedenti che parlano di una guerra condotta sotto traccia dagli Stati Uniti contro il terrorismo islamico in Africa.  

Anche i raid condotti una settimana fa dagli americani contro l’Isis in Siria – che nell’ultimo anno ha sferrato oltre 220 attacchi nel paese con un aumento esponenziale – sono parte della stessa storia, perché molti analisti ritengono che il denaro usato dai jihadisti nascosti nella Badiya, il deserto siriano, arrivi proprio dalle province africane. Così, quella che agli albori del Califfato era considerata la “periferia” è ora il cervello dell’Isis da dove partono ordini e denaro, in direzione opposta rispetto a quanto accadeva quando erano la Siria e l’Iraq la culla dell’Isis. E due giorni fa in Turchia sono stati emessi 137 mandati di arresto contro altrettanti miliziani dell’Isis, tutti accusati di pianificare attentati coordinati tra Natale e Capodanno nel paese. Tutti i membri arrestati, 115 in tutto, hanno intrattenuto contatti continui con “diverse zone in conflitto dove sono attivi gruppi terroristici”, molte delle quali in Africa. 

 

La lezione è semplice: lasciare territorio ai jihadisti in Africa aumenta l’insicurezza anche per l’occidente. Se è vero che i calcoli politici interni sono stati preponderanti nella decisione di Donald Trump di attaccare il nord-ovest della Nigeria, le gerarchie militari americani mettono all’erta da tempo sull’urgenza di un intervento nel Golfo della Guinea. Ciò che preoccupa il Comando di Africom, che si occupa delle operazioni nel continente africano, è che dopo avere perso il Sahel cacciati dalle giunte golpiste tra Mali, Niger e Burkina Faso, ora anche ampie regioni dell’Africa occidentale, quelle confinanti possano finire sotto il controllo jihadista. 

Tuttavia, è difficile giudicare l’efficacia dell’attacco di Natale. “Se esiste una strategia regionale più ampia, potrebbe essere quella di ristabilire una parte della presenza statunitense nel Sahel”, dice Barnett. “Dimostrando che gli Stati Uniti sono disposti a utilizzare costosi strumenti militari come i missili Tomahawk per colpire i campi jihadisti, l’Amministrazione Trump potrebbe sperare di impressionare le giunte militari nel Sahel, sempre più sotto pressione da parte dei gruppi jihadisti e che hanno fatto affidamento su mercenari russi, finora inefficaci”. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.