Minaccia russa, responsabilità europea

Non siamo in guerra ma non siamo più in pace. Benvenuti nella “zona grigia”, dove conta la valigetta

Paola Peduzzi

Tra avvertimenti di guerra e tattiche della “zona grigia”, l’Europa affronta la minaccia russa senza certezze sugli alleati: tra storia, diplomazia e valigette trumpiane, prepararsi al conflitto diventa urgente e culturale, non solo militare

Prepariamoci a una guerra con la Russia: gli apparati di sicurezza e di intelligence europei non fanno che ripetere quest’appello, c’è chi lo fa con toni molto allarmanti – come il capo di stato maggiore francese Fabien Mandon che ha detto di prepararci a perdere i nostri figli, in questa guerra – e chi facendo riferimenti storici, in particolare uno: l’Europa degli anni Trenta inattrezzata e cedevole di fronte al nazismo. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha paragonato l’insaziabilità hitleriana a quella di Vladimir Putin; il segretario generale della Nato Mark Rutte ha detto che il conflitto che ci attende è devastante come quello che hanno dovuto affrontare i nostri nonni e bisnonni nel Novecento; il capo di stato maggiore britannico Richard John Knighton ha citato di nuovo il sacrificio che le famiglie dovranno sostenere per difendere il loro paese. Le avvisaglie ci sono tutte, siamo già nella cosiddetta “zona grigia”, quella in cui la guerra guerreggiata non c’è ancora ma la pace non c’è già più, quella degli attacchi ibridi, dei droni russi che sorvolano le infrastrutture militari europee (e destabilizzano quelle civili), delle spie, dei sabotaggi, della propaganda. Per gli europei prendere consapevolezza di questa minaccia implica uno sforzo enorme non soltanto in termini militari e politici, ma soprattutto culturali: che cos’è l’Unione europea se non un progetto di libertà, diritti e pace? E che cosa resta dell’Unione europea se le togli la pace?

Sono domande che toccano i nervi, dolorose ed esistenziali, ancor più perché diventano urgenti nel momento in cui gli Stati Uniti, che hanno incoraggiato la creazione del progetto europeo e che hanno garantito il cosiddetto “dividendo per la pace” che è alla base del nostro welfare, non sono più interessati all’Europa, anzi, la indicano – proprio perché è libera e democratica e pacifica – come il loro principale nemico. E’ per questo che orientarsi nella zona grigia è tanto complicato, perché non c’è più la pace ma non c’è nemmeno più la certezza dell’alleato americano.

Nel documento sulla Strategia di sicurezza nazionale – che Anne Applebaum definisce “la lettera di suicidio più lunga della storia”, perché se l’America considera nemici solo gli europei, rischia di non difendersi più dai nemici veri, che forse non sono woke ma hanno l’atomica – gli autori evidenziano le loro aree di interesse, cioè l’emisfero occidentale, le Americhe, e indicano il commercio e lo scambio come strumento di pace globale. Il Financial Times ha cercato di decifrare questo strumento. In un lungo articolo, il quotidiano britannico cita il deputato repubblicano Brian Mast – che è stato eletto nella circoscrizione della Florida dove c’è “la seconda Casa Bianca non ufficiale”, tra Mar-a-Lago e gli altri lussuosi compound in cui i trumpiani incontrano le delegazioni straniere, e che guida la commissione Affari esteri del Congresso – che racconta il viavai di diplomatici, politici, negoziatori di tutti i paesi del mondo, ognuno con la propria eccellenza da vendere e scambiare, “è un po’ la nuova moda, dice, cercando di trovare la metafora appropriata, l’indumento del momento, ‘la chiamiamo la nuova valigetta, chiunque arriva qui con una valigetta’”. La valigetta è il simbolo della diplomazia come l’intende il trumpismo, quella in cui gli affari sostituiscono i valori e le alleanze, quella che rende la zona grigia oggi invivibile ma domani illuminata da una nuova guerra. Ma il nemico, che è evidentemente la Russia, non fa paura, anzi, nella valigetta ci dev’essere pure una bacchetta magica che trasforma un paese violento ed espansionista con l’obiettivo dichiarato di annichilire l’occidente in un interlocutore affidabile: Susie Wiles, chief of staff di Donald Trump, nelle sue incaute ma in fondo inoffensive (per il suo capo) dichiarazioni a Vanity Fair, dice che Trump le ha regalato una foto con la dedica “sei la migliore” di lui e  Putin, la foto del cuore da conservare, scattata ad Anchorage, al vertice di Ferragosto. 

A dire la verità non è ben chiaro che cosa ci sia nella valigetta che riguarda l’aggressione della Russia in Ucraina: da un mese si parla di piani a punti di cui si conoscono soltanto le indiscrezioni (con commenti discordanti), si sa che ci sono affari in corso tra Washington e Mosca ma non quali siano, e si sa che gli europei, nella zona grigia, hanno capito che un non accordo di pace potrebbe essere più salvifico di un accordo negoziato tra Trump e Putin. Quel che non si sa è naturalmente il punto cieco, ma navigando a vista si intuisce che la nuova America punta a ricostituire le aree di influenza con le altre grandi potenze eccetto l’Europa: gli Stati Uniti si occupano del continente americano, la Russia dell’Eurasia e la Cina dell’Asia. Per questo Trump ripete che la guerra contro l’Ucraina non è  la sua guerra, è affare degli europei o sarebbe meglio dire della Russia. Con la Cina Trump cerca una pace commerciale, l’espansionismo cinese importa meno almeno finché non entra in collisione con qualche interesse commerciale americano. Questo meccanismo è evidente in Europa – il portavoce trumpiano nella nostra Ue e nella nostra Nato, Viktor Orbán, lo ha esplicitato ancora ieri mentre si avviava a Bruxelles: se l’Ungheria vota contro la confisca degli asset russi congelati, Putin la risparmierà quando deciderà le sue contromisure economiche – ma lo è anche nell’operazione trumpiana contro il Venezuela. Di nuovo: le intenzioni di Trump contro il regime di Maduro sono chiare ma non lo sono i mezzi, ma pure se Russia e Cina continuano a sostenere l’alleato venezuelano non ci mettono eccessiva enfasi pubblica. Perché nella loro valigetta c’è questo silenzio e questo scambio: ognuno nel proprio cortile fa quel che crede meglio, tra di noi non diamoci troppo fastidio. E a ben vedere questa sì che è una luce sparata sulla zona grigia: non la più auspicabile, certo, ma ignorarla è impossibile.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi