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In attesa dei fatti, ci sono le parole

Così Meloni riempie di schiaffi Salvini sulla difesa di Kyiv e sulla guerra che la Russia non sta vincendo

Claudio Cerasa

La presidente del Consiglio rompe l’ambiguità filoputiniana, contesta la narrativa della “sconfitta inevitabile” dell’Ucraina e rivendica una linea europea che lega la difesa ucraina alla sicurezza e alla sovranità dell’Italia

I fatti sono importanti, lo sappiamo, ed è sui fatti che andrà giudicato il governo quando si parla di Ucraina. Ma nell’attesa dei fatti, nell’attesa cioè di capire cosa farà l’Italia con il decreto sulle armi, cosa farà l’Italia con il congelamento e non solo con l’immobilizzazione degli asset russi e cosa farà l’Italia per non essere una comparsa nella coalizione dei volenterosi che promette di fare tutto il necessario per proteggere il futuro dell’Ucraina, anche le parole hanno un loro peso specifico piuttosto importante. E le parole usate ieri da Giorgia Meloni alla Camera, nel corso delle comunicazioni in vista del Consiglio europeo, sono parole che sulla carta promettono bene e indicano una direzione di marcia dell’Italia molto diversa da quella suggerita da Matteo Salvini. Il vicepremier, tre giorni fa, in una dichiarazione giustamente elogiata dalla portavoce del ministro degli Esteri russo, ha detto di non voler scegliere tra Putin e Zelensky. Giorgia Meloni, ieri alla Camera, non si è limitata a spiegare che sull’Ucraina non ci può essere alcun tentennamento. Ha fatto qualcosa di più. Ha sfidato il pensiero cialtronista e sovranista e filoputiniano affermando una verità che meriterebbe di essere maggiormente valorizzata nel dibattito pubblico. In sintesi: non è vero che la Russia sta vincendo la guerra, non è vero che l’Ucraina sta perdendo la guerra, non è vero che sostenere la resistenza dell’Ucraina sia stata una perdita di tempo e non è vero che per il futuro dell’Ucraina la parola di Trump debba contare più di quella di Zelensky.

 

Quest’ultimo concetto Meloni lo ha sintetizzato in due passaggi del suo discorso, quando ha riconosciuto che Europa e Stati Uniti “hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili” e quando ha detto, passaggio rilevante, che “sul tema dei territori ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà”, dunque neanche Trump.

 

Sugli altri punti Meloni ha sfidato l’agenda dei Patrioti, su Kyiv, dicendo che il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, rafforzamento necessario per “i rischi che correrebbe l’Europa se la Russia ne uscisse rafforzata”, si ottiene grazie al “mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca”. Meloni ha anche definito il desiderio della Russia di avere il Donbas una delle “pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori”. Ed è qui che la presidente del Consiglio sceglie, almeno a parole, di sfidare l’agenda del catastrofismo. Meloni – come fatto, in fondo, il giorno prima anche dal presidente della Camera Lorenzo Fontana, leghista, che ha mollato schiaffoni notevoli a Matteo Salvini sostenendo che quello che ha fatto finora la Russia in Ucraina non si può in nessun modo definire “una vittoria strategica”, avendo in quattro anni la Russia “conquistato appena il venti per cento di un territorio che riteneva praticamente proprio” – ha detto quanto segue. Ha detto che “a differenza di quanto narrato dalla propaganda, il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella Costituzione russa come parte integrante del proprio territorio”, mentre quelle regioni sono ancora oggi sotto controllo ucraino.

 

E la dimostrazione plastica del fatto che aver armato e difeso l’Ucraina in questi anni ha aiutato a tenere la minaccia russa più lontana dal cuore dell’Europa è un fatto che ci permette di andare oltre quella che Meloni chiama “la cortina fumogena della propaganda russa”, anche se parte di quella propaganda è ormai patrimonio del suo stesso governo. “La realtà sul campo – dice Meloni – è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 a oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45 per cento del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. Ed è questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita”. Le parole sono un conto, naturalmente, e i fatti ne sono un altro, e questi andranno misurati sul campo. Ma il discorso di ieri di Meloni è importante non solo perché dimostra che almeno a parole il governo italiano ha scelto di stare più dalla parte dell’Europa che dalla parte di Trump, anche se i fatti a volte indicano una strada diversa. Sono importanti perché aiutano a capire cosa rischierebbe l’Italia a derogare dall’impegno di proteggere l’Ucraina con tutti i mezzi e gli strumenti a disposizione. E le ragioni per cui convertirsi al trumpismo rischiano di essere pericolose sono state spiegate ieri proprio da Meloni: “In gioco non ci sono solo la dignità, la libertà e l’indipendenza dell’Ucraina, ma anche la sicurezza dell’Europa nel senso più ampio del termine”. Essere per la sovranità dell’Ucraina e dell’Europa significa voler tutelare gli interessi nazionali. Non sapere scegliere per chi fare il tifo fra Putin e Zelensky, o anche tra l’Europa e Trump, significa andare contro gli interessi del proprio paese. Meloni, ieri, lo ha ricordato ai filoputiniani di destra e di sinistra. Ma quelle parole valgono anche per la Meloni del futuro: derogare alla difesa della libertà dell’Ucraina significa derogare alla difesa della libertà dei propri cittadini. I veri patrioti oggi non sono quelli che si apprestano a srotolare i tappeti rossi alla propaganda putiniana. Sono quelli che quella propaganda la combattono ricordando ogni giorno alla destra schiava del putinismo e alla sinistra ostaggio dell’antizelenskismo che sostenere l’Ucraina non è un costo ma è qualcosa di molto diverso: semplicemente un investimento sulla nostra sicurezza, sulla nostra sovranità, sul nostro futuro.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.