Bozze e contro bozze, perché non c'è nessun negoziato sull'Ucraina

Micol Flammini

Ogni trattativa è farlocca fino a quando non si costringe Putin a sedersi al tavolo. Colloqui lunghi, proposte infinite: girare in tondo al punto di partenza

Il prezzo dell’alcol in Russia, secondo la stampa locale, aumenterà dal 2026 di oltre il dieci per cento. L’unico argomento che sta a cuore a Mosca, ai suoi giornali e alle sue televisioni, è l’uso che i paesi dell’Unione europea decideranno di fare dei beni russi congelati e l’impatto sull’economia. Il resto non conta e anche le discussioni su un accordo di pace vengono derubricate come “una perdita di tempo”. Se da Berlino gli americani e gli europei hanno detto che sono stati compiuti passi importanti verso un accordo per far finire la guerra, e se il presidente Donald Trump ha ripetuto ancora che la soluzione è complicata ma incredibilmente vicina, da Mosca appare lontanissima. Gli europei hanno lavorato assieme al presidente ucraino Volodymyr Zelensky e ai suoi negoziatori per continuare a modificare la bozza di accordo in modo che possa garantire la protezione dell’Ucraina e incontrare il favore degli americani


Sui tavoli negoziali sono passate molte bozze di un piano per la pace, attualmente il documento che viaggia fra Berlino, dove si sono incontrati lunedì i leader, e Washington, è l’ultima versione rivista della bozza di venti punti che rappresenta la risposta al piano in ventotto punti che gli americani avrebbero scritto su suggerimento di Kirill Dmitriev, capo del Fondo sovrano russo per gli investimenti all’estero. Mentre Zelensky era a Berlino con i leader europei e i negoziatori americani Steve Witkoff e Jared Kushner, Dmitriev postava su X l’immagine di una bottiglia di vodka con il profilo di Donald Trump e dietro, sullo sfondo, si vedeva il Cremlino. Se per Washington sono stati fatti progressi importanti, per Mosca non c’è fretta, non è tempo di negoziare e infatti ieri il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha detto che i russi hanno avuto la rassicurazione dagli americani di riavere indietro le terre in cui sono vissuti per secoli. Stando alle parole di Lavrov, gli emissari di Trump avrebbero assicurato che Mosca avrà il Donbas, ma sicuramente mentre il ministro degli Esteri parlava faceva riferimento anche ad altri territori e città, come Odessa, che per la Russia è russa e quindi deve tornare al Cremlino. 


Gli americani vogliono che Zelensky firmi un accordo con Washington, ma Kyiv non può legarsi agli americani senza avere nulla in cambio, ha bisogno di rassicurazioni prima di accettare un’intesa. Ieri il Telegraph riferiva che gli Stati Uniti sono pronti a dare agli ucraini garanzie “platinum standard”, facendo riferimento a un possibile articolo 5 senza che Kyiv entri nella Nato. I vincoli da parte degli alleati a intervenire per proteggere l’Ucraina in caso di un futuro attacco di Mosca per ora non ci sono e il rischio che venga presentato a Zelensky un accordo molto simile al Memorandum di Budapest del 1994, quando Kyiv cedette le sue testate nucleari in cambio della promessa che sarebbe stata protetta da Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna, è percepito come molto alto. Gli americani promettono garanzie se l’Ucraina accetta l’accordo, ma Kyiv non può accettare nulla senza garanzie certe. 


Il processo risulta ancora fermo al punto di partenza, è un girare in tondo attorno alle trattative che non sta dando nulla di concreto. Gli ucraini continuano a ringraziare gli americani per qualsiasi cosa, per timore di indispettire la Casa Bianca e per non dare al Cremlino l’impressione di aver perso il più prezioso degli alleati, ma prevale un senso di diffidenza, sfiducia. L’unica certezza che ha Kyiv in questi giorni è che c’è massima allerta per un prossimo attacco molto forte da parte dell’esercito russo, per il resto è consapevole che fino a quando Mosca non sarà messa al tavolo a trattare – o quanto meno in un’altra stanza, nel formato della diplomazia navetta – non si può neppure parlare di “negoziati”. L’unica certezza di Mosca invece è che la fine della guerra ora potrebbe farle comodo ma senza accettare compromessi: nulla di quello che gli americani ritengono possibile è stato accettato dal Cremlino. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)