Foto di Andrea Prada Bianchi
Reportage
Le suore che costruiscono una chiesa in Siria tra gli spari
A Fons Pacis, nell’ovest del paese, dove 20 monache Trappiste dicono: “Abbiamo paura. Che ci succederà domani?”
Nel monastero di Fons Pacis, arroccato su una collina della Siria occidentale, madre Marta Fagnani e le sue cinque consorelle pregano ogni giorno col rumore di spari in sottofondo. Mentre cantano i loro salmi durante le sette preghiere quotidiane di rito, sembrano non accorgersi delle raffiche di mitra. A volte, raccontano, i proiettili grandinano dal cielo danneggiando i pannelli solari del monastero. Madre Fagnani è in Siria da esattamente 20 anni, e nel 2008 era tra le quattro suore che arrivarono qui al confine con il Libano per piantare la croce di fondazione di Fons Pacis. Scelsero una collina tra il villaggio cristiano di Azer e il paese sunnita di al Halat, in una regione prevalentemente alauita, la setta sciita minoritaria associata all’ex presidente Bashar el Assad. Quando il cielo è terso, si intravede il Mediterraneo a ovest. Fagnani e le altre appartengono a uno degli ordini cattolici più esigenti, quello Trappista, e dedicano la loro vita alla contemplazione, al silenzio, alla preghiera e al lavoro. Tre anni dopo essere arrivate, proprio quando il monastero iniziava a prendere forma, la Siria precipitò nella guerra civile. Fagnani dovette sospendere i lavori e accontentarsi di una piccola struttura temporanea, dove ancora oggi vivono e pregano.
Nel 2022, quando la presa di Assad sulla Siria sembrava salda, le monache iniziarono a costruire il monastero che avevano ideato originariamente. Mai avrebbero potuto immaginare che lo scorso 8 dicembre il paese sarebbe caduto sotto il controllo di Hayat Tahrir al Sham (Hts), un gruppo ribelle un tempo affiliato ad al Qaeda. Il progetto di Fagnani, già ambizioso in un paese che i cristiani stanno abbandonando da decenni, sembra ora impensabile sotto un governo islamista non ancora in grado tenere a freno le sue fazioni più estremiste.
“E’ pura follia”, dice Fagnani parlando del monastero, “mi sento più insicura ora che durante la guerra. Allora avevamo paura delle bombe, ma non avevamo la sensazione di poter diventare un bersaglio”. A 64 anni, Fagnani è una donna robusta e pragmatica dall’accento lombardo, “non una suorina precisina a cui non piace sporcarsi le mani”. Camminando nello scheletro in cemento del futuro monastero, non riesce a fare a meno di sorridere mentre spiega la funzione di ogni stanza. Per quella che dovrebbe diventare la loro futura casa, le Trappiste hanno fatto le cose in grande.
Il complesso occupa un’area poco più grande di un campo da calcio. La chiesa è alta 12 metri, con tre navate e un’imponente facciata collegata a un chiostro su due piani con camere per ospitare 20 suore. Fagnani, così come gli operai cristiani di Azer, sa che un edificio di queste dimensioni potrebbe attirare attenzioni indesiderate dalle persone sbagliate. E sia lei sia i muratori sembrano pronti a correre il rischio. “Perché dobbiamo avere paura di costruire una bella chiesa?”, dice la monaca. “Ma abbiamo anche chiesto al nostro architetto di abbassarla un po’ rispetto al disegno originale. Gli abbiamo detto: ‘Senti, qua ci ammazzano…’”.
Durante la settimana che abbiamo trascorso a Fons Pacis, si è sentito sparare ogni giorno. La gente del posto e le suore – due italiane, due ecuadoriane, una angolana e una argentina – spiegano che spesso provengono da matrimoni e altre celebrazioni. Da quando è caduto il regime di Assad, tuttavia, vengono anche da scontri tra milizie sunnite rivali, operazioni legate al contrabbando e attacchi contro gli alauiti. A volte si sente solo qualche sparo, a volte intere raffiche. “La paura viene dal fatto che ora non sappiamo chi e perché stia sparando”, spiega Fagnani, azzittendosi un attimo per valutare una raffica insolitamente lunga. “Come faccio a sapere che non viene da un gruppo che ce l’ha con i cristiani?”. Quando le si chiede se ci si abitua agli spari, risponde semplicemente inarcando le sopracciglia e ondeggiando la mano: così così.
Prima della guerra, i cristiani costituivano circa il 10 per cento della popolazione siriana. Secondo alcune stime, la percentuale è scesa ora al 3 per cento. Hts prese di mira le proprietà cristiane già quando governava Idlib, la città nel nord della Siria da dove è partito il contrattacco al regime. A giugno, un attentato suicida nella chiesa di Mar Elias a Damasco ha ucciso 25 persone e ferite una cinquantina, tra cui la sorella di una delle lavoratrici di Fons Pacis. I cristiani sono stati presi di mira durante gli scontri a Suwayda e a ottobre due sono stati uccisi vicino al castello crociato di Krak dei Cavalieri. Nella stessa zona, a fine novembre, un gruppo di motociclisti ha sfilato sventolando bandiere jihadiste nella piazza dove si stava addobbando l’albero di Natale. Krak dei Cavalieri dista solo 13 chilometri in linea d’aria da Fons Pacis. Ahmed al Sharaa, nuovo presidente della Siria ed ex leader di Hts – fino al mese scorso nella lista dei terroristi degli Stati Uniti – ha espresso le sue condoglianze dopo l’attentato di Damasco, ma molti cristiani sono ancora scettici sul suo impegno nel proteggere le minoranze. Il governo ha chiesto alle donne di vestire in maniera modesta in spiaggia. Nella capitale, alcuni locali notturni sono stati presi di mira da uomini armati.
Nella zona di Fons Pacis, la tensione è alta. A Talkalakh, la città più vicina, posti di blocco si susseguono ogni poche centinaia di metri. La regione si trova ai margini del territorio costiero abitato dagli alauiti. Negli ultimi mesi, sono stati perseguitati in un’ondata di revanscismo da parte della maggioranza sunnita, anche nei pressi di Fons Pacis. In alcune occasioni, Fagnani ha ospitato alauiti che lavoravano al monastero perché avevano paura di tornare a casa la notte. Scontri tra fazioni sunnite rivali non sono rari e diverse milizie (siriane e straniere) hanno battuto la zona intorno a Fons Pacis. Gli abitanti di Azer ricordano con particolare timore una milizia cecena che ha operato nella zona dall’inizio dell’anno fino a luglio. Lo stesso custode del monastero, un uomo anziano e disarmato, racconta di essersi scontrato con due degli stranieri, che non parlavano arabo e gli hanno puntato contro i mitra.
Fagnani e le altre ora non solo vivono con la costante paura che un gruppo estremista possa prenderle di mira, ma stanno anche costruendo una piccola cattedrale in un luogo dove sarà quasi impossibile trovare novizie. E non devono trovare suore qualsiasi, ma suore disposte a rimanere in clausura a vita. “Sì, questa è la vera follia”, ammette Fagnani, “perché siamo consapevoli della nostra precarietà e qui non ci sono quasi vocazioni”.
Intorno allo scheletro del futuro monastero, tonnellate di pietre bianco-rosate sono accatastate in attesa di rivestire le mura ancora in calcestruzzo. Dopo la caduta di Assad, i lavori sono rallentati perché la scarsa sicurezza limita i movimenti delle varie ditte. Essendo l’unica che parla arabo, Fagnani è anche l’unica in grado di coordinare i lavori in cantiere. “Se tutto andasse liscio, potremmo finire in un paio d’anni”, spiega camminando tra le mura delle 20 celle preparate per le future monache. “Dopodiché, dobbiamo solo trovare le suore”, aggiunge quasi con ironia.
Nei 20 anni trascorsi in Siria (quasi un terzo della sua vita), Fagnani è passata attraverso il regime, la guerra e il trionfo degli islamisti. Ha visto morire due delle quattro fondatrici arrivate con lei nel 2005, scomparse a maggio proprio mentre il monastero iniziava a prendere forma. Ha conosciuto e incontrato religiosi come lei che sono finiti rapiti o uccisi, tra cui padre Paolo Dall’Oglio, e ha assistito all’esodo dei cristiani. Eppure, ha continuato a costruire.
L’idea di fondare un monastero in terra araba risale al 1996, quando sette monaci trappisti dell’abbazia di Tibhirine, in Algeria, furono rapiti e uccisi durante la guerra civile. A Fagnani, ai tempi monaca nel monastero di Valserena (Cecina), toccò il compito di leggere alle sorelle riunite in refettorio la notizia del ritrovamento delle teste dei monaci. Da allora, l’idea di continuare la loro missione non l’ha più lasciata. Quando l’ordine lanciò la chiamata di raccogliere l’eredità di Tibhirine, si offrì volontaria. Con tre sorelle, arrivò ad Aleppo nel 2005 senza parlare una parola di arabo e iniziò a cercare un terreno per la nuova fondazione, fino ad arrivare ad Azer.
Nel 2011, quando il progetto stava iniziando a prendere piede, il paese implose e nel 2013 la guerra raggiunse il monastero. Milizie provenienti dal Libano attraversavano il confine per unirsi ai ribelli contro l’esercito siriano nella zona di Fons Pacis. “Per fare la spesa, dovevamo attraversare strade prese di mira dai cecchini”, racconta Fagnani, “ e all’apice dei combattimenti aerei da guerra e razzi sorvolavano il monastero. Abbiamo imparato a riconoscere i diversi tipi di artiglieria. Nelle notti peggiori dormivamo in corridoio perché era più sicuro e per tre anni abbiamo tenuto una borsa pronta coi passaporti”. Sebbene in molti dicessero loro di lasciare il paese, non se ne sono mai andate. Alla fine degli anni 10, il regime di Assad aveva riconquistato gran parte del territorio siriano, confinando i ribelli a Idlib. La situazione nel paese sembrava abbastanza stabile per iniziare a costruire il monastero secondo il disegno originale, e nel 2023 Fagnani e le altre gettarono le fondamenta. Un anno dopo, quegli stessi ribelli di Idlib sono arrivati ai piedi del monastero.
Fons Pacis è collegato ad Azer da una strada a curve che dal villaggio sale sulla collina. All’inizio della strada, una sonnolenta stazione di polizia mantiene la sicurezza della zona. Le mura esterne recentemente ridipinte con la nuova bandiera siriana, ospitano una decina di uomini della sicurezza generale. Tre di loro, in uniformi raffazzonate, raccontano orgogliosi dei giorni della “rivoluzione” a dicembre. Sono uomini dell’ex Hts e hanno preso parte all’offensiva che in 11 giorni ha posto fine a 50 anni di regime di Assad. Sorseggiando una tazza di tè, il più giovane, Ali al Jaseem, dice di non aver ancora avuto l’“onore” di incontrare madre Fagnani. Cresciuto a Idlib, una città governata da islamisti per più di dieci anni, all’inizio di agosto si è ritrovato a proteggere una mezza dozzina di suore e un villaggio cristiano. Proprio come Fagnani, non sembra accorgersi dell’eco degli spari provenienti da fuori. “Le autorità ci rispettano, anche perché siamo straniere e ora vogliono stabilire relazioni con la comunità internazionale”, dice Fagnani, passeggiando sul tetto del monastero. “Ma domani? Una volta che il mondo si dimenticherà di nuovo della Siria?”.
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