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l'editoriale del direttore

La minaccia di Trump ha reso l'Europa capace di ripensare sé stessa

Claudio Cerasa

In superficie, una strategia di sopravvivenza disperatamente ruffiana. Nella realtà, molti segnali di un risveglio e di un cambio di passo in tema di economia e difesa. Grazie Europa, per aver saputo trasformare le crisi esistenziali in opportunità di crescita 

I leader europei, da qualche tempo a questa parte, hanno scelto di adottare nei confronti di Donald Trump una strategia di sopravvivenza disperatamente ruffiana, in base alla quale ognuno di loro, anche se viene maltrattato dal presidente americano, cosa che succede più o meno a ogni ora del giorno, deve necessariamente trovare un modo per costruire il suo personalissimo Thanksgiving rivolto allo stesso Trump. Il presidente americano aumenta i dazi? Gli europei lo ringraziano per averlo fatto meno del previsto. Il presidente americano minaccia di non aiutare più la Nato a difendere l’Europa? Gli europei lo ringraziano per i suoi sforzi a favore della pace. Il presidente americano minaccia gli europei di non proteggere più l’Ucraina con le armi necessarie per la controffensiva? Gli europei lo ringraziano per la possibilità che gli stessi paesi europei avranno di comprare dall’America quelle armi per girarle all’Ucraina.

   

Il presidente americano, come fatto venerdì scorso nel documento della National Security Strategy adottato dalla Casa Bianca, descrive l’Europa come un continente in declino, indebolito da immigrazione, crisi demografica e perdita di identità, al punto da rischiare la “cancellazione della sua civiltà entro 20 anni”, dubitando dell’affidabilità economica e militare dei paesi europei, criticando le “aspettative irrealistiche” sull’Ucraina e chiedendo che l’Europa assuma la responsabilità primaria della propria sicurezza, e alcuni leader europei, come Meloni, chiedono come se nulla fosse di ascoltare i consigli di Trump.

   

L’approccio, va detto, spesso ricorda un famoso approccio fantozziano – “come è umano lei” – ma in fondo si capisce che la necessità di compiacere Trump, come si è evinto dagli scambi di messaggi tra Steve Witkoff e il consigliere diplomatico russo Yuri Ushakov, con il primo che consigliava al secondo di suggerire a Putin, prima di ogni richiesta, di complimentarsi con Trump definendolo “uomo di pace”: “Vedrai, dopo quel messaggio sarà davvero un’ottima conversazione”. Adulazione a parte, però, adulazione che gli europei hanno imparato a usare per evitare di scatenare ire improvvise del presidente americano, ci sarebbero in verità delle ragioni serie per ringraziare Trump per tutto quello che ha fatto in questi mesi per l’Europa, ovviamente involontariamente, non volontariamente come sostiene Meloni.

   

Da quando Trump è alla Casa Bianca l’Europa è scesa dal letto dell’addormentata nel bosco e ha iniziato per forza di cose ad assumere una postura diversa dal passato. La qualità dell’azione delle grandi istituzioni, ovviamente, la si può guardare a livello assoluto e a livello relativo. Se la si osserva a livello assoluto, se si sceglie cioè di utilizzare la lente di ciò che servirebbe all’Europa per diventare grande, la valutazione è, purtroppo, drammaticamente insufficiente (leggere il Rapporto Draghi per capire perché). Se la si osserva però a livello relativo, se si sceglie cioè la lente di ciò che l’Europa sta facendo per cambiare direzione di marcia, la valutazione è, sorprendentemente, quasi entusiasmante. Lunedì scorso, tanto per cominciare, diciannove paesi Ue hanno presentato i piani all’interno del progetto europeo Safe, il primo vero test di una difesa industriale europea condivisa, meno dipendente dagli Usa. Sono fino a 150 miliardi di investimenti comuni nella Difesa, con 15 stati che hanno incluso misure per l’Ucraina (dal 2022 l’Ue ha approvato 19 pacchetti di sanzioni contro la Russia, sempre all’unanimità: quasi 2.400 tra persone ed entità colpite). Contestualmente, il 2025 è il primo anno in cui tutti gli alleati europei della Nato hanno messo nero su bianco l’obiettivo del 2 per cento per la spesa militare e, sempre nel 2025, la spesa Ue prevista in ricerca e sviluppo per la Difesa è passata a 17 miliardi dai 9 del 2020 (+90 per cento in cinque anni). Senza l’America, bisogna difendersi, e per difendersi da soli bisogna fare passi in avanti (dai dati del Kiel Institute risulta che l’Europa ha allocato oltre 100 miliardi di euro per l’Ucraina contro i circa 75 miliardi degli Stati Uniti).

   

A livello economico, nonostante i dazi, l’effetto Trump non è stato disastroso. Nel 2025 le borse europee hanno sorpreso in positivo: lo Stoxx 600 è salito di circa il 6,6 per cento a metà anno, contro il 6,8 per cento di incremento dello S&P 500, e in euro ha chiuso intorno a +13 per cento, rispetto al +17-19 per cento degli indici americani: un anno raro in cui l’Europa ha tenuto quasi il passo di Wall Street. L’euro si è rafforzato di oltre il 10 per cento, passando da 1,03 a oltre 1,15 dollari, segnale che i mercati, nonostante dazi e incertezze, non considerano l’Europa un continente vulnerabile. L’Europa non si è chiusa. Ai 44 accordi di libero scambio già in vigore si aggiunge oggi un’agenda di negoziati con 76 paesi, tra cui India, Malaysia, Emirati Arabi Uniti, Thailandia, Filippine, Indonesia e vari paesi sudamericani. L’effetto Trump ha accelerato alcuni di questi processi, spingendo anche governi più protezionisti verso il mercato aperto. Sul fronte tecnologico, anche il Gdpr è entrato in una fase di revisione pragmatica: come ha ricordato Draghi, norme troppo rigide hanno rallentato l’innovazione delle Pmi. La spinta competitiva esterna – inclusa quella di Trump – ha costretto l’Europa a porsi il problema dell’attrattività tecnologica, non solo della regolazione. Stessa storia per il Green deal: la concorrenza americana, alimentata da sussidi colossali, ha portato l’Ue a un alleggerimento necessario per evitare danni all’industria europea. Ritirato il taglio del 50 per cento ai pesticidi, annacquata la Nature Restoration Law, ammorbidito l’Euro 7 e rivisto lo stop ai motori endotermici del 2035. L’elemento politicamente più rilevante è che la tossicità del trumpismo, il suo presentarsi come un elemento minaccioso per l’Europa, ha spinto alcune destre europee – che in teoria avrebbero avuto qualcosa da guadagnare seguendo l’onda trumpiana – verso una terza via. E’ questo il caso di Meloni, che nonostante una componente trumpiana nella maggioranza non ha perso la barra sul sostegno all’Europa, ed è questo anche il caso del fronte lepenista, che pur odiando Bruxelles ha evitato di abbracciare il verbo trumpiano. Trump, lo sappiamo, ha reso l’Europa più vulnerabile. Il desiderio di scaricare sulle spalle dell’Ucraina il peso di una guerra che non ha voluto è l’immagine perfetta di quanto l’America trumpiana abbia davvero a cuore il futuro del continente (Trump non denuncia per l’Europa solo il rischio che questa venga cancellata: il suo è quasi un auspicio). Ma Trump ha costretto l’Europa a ripensare sé stessa – economicamente e militarmente – e i passi in avanti fatti sono oggettivi. Ringraziare Trump sarebbe eccessivo e ha ragione Giuliano Ferrara quando dice che “la stasi mascherata da volitiva disponibilità a difendersi al fianco di un alleato che non ne vuole più sapere, sarebbe semplicemente la conferma del National Security Strategy, cioè che l’Europa come entità politica autonoma è largamente fottuta”. Dall’altro lato però ringraziare l’Europa per aver trasformato la minaccia trumpiana in un’occasione di maturazione, forse no, forse non è eccessivo. E se scegliamo di mettere insieme tutto quello che Trump ha fatto involontariamente per il nostro continente forse nonostante tutto possiamo continuare a ringraziare l’Europa per aver saputo trasformare anche in questo anno drammatico le crisi esistenziali in opportunità di crescita futura. Speriamo continui.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.