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Armi e pensiero, l'inscindibile legame tra filosofia e guerra
Da Eraclito a Wittgenstein, passando per Clausewitz. Nella storia della filosofia, la guerra come principio del cosmo è stata una delle ipotesi fondanti. Eppure oggi ci si indigna per i militari all’Università
Il militare filosofo, i militari filosofi, filosofia del militare, militari a filosofia… Sembra un bisticcio da film del primo Nanni Moretti, ma è una variazione sul tema che a chi ha coltivato un po’ certe questioni può venire spontanea, dopo il pasticcio dello scontro (o forse solo malinteso) tra Forze Armate e Università di Bologna. “Per creare un pensiero laterale nell’esercito, per dare la possibilità di pensare in maniera differente e uscire dallo stereotipo, ho chiesto all’Università di Bologna di avviare un corso di laurea per 10-15 dei miei ufficiali”, ha denunciato il capo di stato maggiore dell’Esercito generale Carmine Masiello. “Non hanno voluto avviare questo corso per timore di militarizzare la Facoltà. Non posso giudicare le scelte che competono ad altre istituzioni, però rappresento che un’istituzione come l’esercito non è stata ammessa all’Università”. “Una cosa che mi ha sorpreso e deluso”, ha detto il generale, che l’ha definita “sintomatica dei tempi che viviamo e di quanta strada c’è da percorrere, perché la nostra opinione pubblica, in generale, e i giovani, in particolare, capiscano quale è la funzione delle forze armate nel mondo che stiamo vivendo”.
“Non è soltanto una scelta discutibile, ma una rinuncia alla propria missione formativa”, ha protestato la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, promettendo che invece il corso “si farà”. Proteste a destra, ma anche Piero Fassino, come vicepresidente della commissione Difesa della Camera, ha bollato la “triste e desolante conferma della deriva del mondo accademico sempre più incline a battaglie ideologiche e manichee anziché essere luogo di formazione e creazione di sapere”. “A ulteriore chiarimento del dibattito sollevato in questi giorni in merito alle dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore, Gen. Carmine Masiello, riteniamo opportuno precisare che il nostro Ateneo non ha mai negato né rifiutato l’iscrizione a nessuna persona”, ha provato a difendersi l’Università. “Come per tutti gli Atenei italiani, chiunque sia in possesso dei necessari requisiti può iscriversi liberamente ai corsi di studio dell’Ateneo, comprese le donne e gli uomini delle Forze Armate. Collaboriamo stabilmente con l’Accademia Militare di Modena, ai cui allievi, in virtù di specifici accordi ormai ventennali, sono riservati posti presso il Corso di Laurea in Medicina Veterinaria”. Dunque, “il tema oggetto di discussione riguarda non l’accesso ai corsi, bensì una richiesta di attivazione proveniente dall’Accademia per un percorso triennale di studi in Filosofia strutturato in via esclusiva per i soli allievi ufficiali, di cui si rendeva disponibile a sostenere i costi dei contratti di docenza”.
Il Dipartimento di Filosofia avrebbe “ritenuto di non procedere” dopo una valutazione “accurata” di “sostenibilità didattica, disponibilità di docenti, coerenza con l’offerta formativa e insieme di risorse necessarie, che vanno ben oltre il costo di eventuali contratti di docenza”. Insomma, un mero problema di logistica e spesa. Ma prima di questa spiegazione pubblica c’era stata una risposta privata, e sembra di capire che lì sarebbero state espresse perplessità sulla “militarizzazione”, che vengono chiaramente lette come timore di scatenare un movimento estremista che la bandiera pro Pal sta portando a eccessi di tutti i tipi. Insomma, no ai militari per paura dei militanti. Una curiosa polemica, soprattutto perché in greco pólemos significa guerra.
Come si studia al liceo, la storia della filosofia inizia con la Scuola di Mileto, i cui tre esponenti riflettono sul principio primo di tutte le cose: l’acqua per Talete, un indefinito ápeiron per Anassimandro, l’aria per Anassimene. Dopo Pitagora, che invece fa derivare tutto dal numero e dall’armonia, vi è la Scuola di Efeso di Eraclito, per cui invece è proprio pólemos il principio fondamentale e la forza creatrice del cosmo. “Il conflitto è padre di tutte le cose, di tutte re”. E’ il fuoco l’elemento primordiale da cui tutte le cose traggono origine e a cui ritornano, in un processo di cicli eterni. E così tutto scorre: panta rei. Con questa massima Eraclito ci ha pure vinto Sanremo, attraverso la citazione di “Occidentali’s karma” di Francesco Gabbani.
La guerra come principio primo del cosmo è, quindi, una delle ipotesi fondanti nella storia della filosofia. Non l’unica. All’opposto di Eraclito, la successiva Scuola di Elea spiegò invece con Parmenide che l’Essere è immobile. Poi, per influsso della scoperta dei differenti costumi del mondo testimoniata da Erodoto e anche per una prassi di democrazia assembleare in cui era la maggioranza ad avere sempre ragione, i sofisti iniziarono a teorizzare che una verità oggettiva non esiste. Che, se vogliamo, è un portare Eraclito alle estreme conseguenze. Platone per rispondere loro costruì un imponente sistema filosofico in cui cercava di conciliare Scuola di Elea e Scuola di Efeso, spiegando che un eraclitiano Mondo delle Cose dove tutto scorre è riflesso di un parmedianiano Mondo delle Idee dove tutto è immobile. Una visione che in qualche modo continua a essere presente nelle nostre menti, anche per il modo in cui il cristianesimo l’ha filtrata. Dal “mio Regno non è di questo mondo”, alla contrapposizione di Sant’Agostino tra Città di Dio e Città dell’Uomo. Arriviamo così alla dialettica di Hegel, da cui Marx.
Ma anche il liberalismo nasce dall’idea di accettare la teoria di Thomas Hobbes del mondo come guerra perenne, “homo homini lupus”, e di cercare, però, il modo per imbrigliarla. Insomma, inventare un modo per lasciare le conseguenze positive del conflitto, come pulsione naturale e spinta a innovazione e miglioramento, togliendone però gli effetti negativi e distruttivi. Secondo quanto spiegava un grande politologo come Giorgio Galli, il conflitto può prima essere rappresentato in teatro; e poi simulato attraverso i meccanismi della democrazia e dello sport, in cui chi perde non ci rimette vita o libertà, ma può chiedere una rivincita. Sempre Galli ricordava che queste tre cose in occidente erano state reinventate in contemporanea due volte. Prima nell’Atene della democrazia di Pericle e del teatro di Eschilo, Sofocle e Euripide, poi nell’Inghilterra di William Shakespeare e del Parlamento, da cui vengono anche gli sport moderni, a partire da football, rugby e cricket. In Inghilterra John Locke, nel 1689, teorizza i meccanismi di funzionamento di questo conflitto regolato in politica. 87 anni dopo, Adam Smith estende l’analisi al mondo dell’economia, con la scoperta delle leggi del mercato.
Ma al di là del conflitto come base di riflessione della filosofia, ci sono stati anche i militari filosofi, in senso metaforico. Le militaire philosophe, ou difficultés sur la religion proposées au R.P. Malebranche, Prêtre de l’Oratoire, Par un ancien Officier è, in particolare, un libro del 1767. Apparso anonimo per una violenta critica alla religione che all’epoca poteva comportare anche conseguenze penali, è dovuto per il finale a Paul Henri Thiry baron d’Holbach, ma per la maggior parte del testo al suo segretario Jacques Naigeon. Rappresenta uno sviluppo radicale di quel pensiero illuminista che, in risposta alle feroci guerre di religione che avevano insanguinato l’Europa nel secolo precedente, aveva proposto di mantenere la fede in Dio, fondamento della morale, ma senza la Rivelazione, considerata fonte di fanatismo. Insomma il deismo filosofico di Voltaire e Rousseau, contro il teismo delle religioni storiche. Ma il soldato che si fa filosofo spiega che ormai anche quel compromesso va superato, e con la filosofia bisogna fare la guerra a ogni fede, in nome dell’ateismo.
E ci sono stati i militari filosofi, che hanno fatto la storia del pensiero dopo essere stati in guerra. Lo stesso Socrate, che fa da spartiacque tra i cosiddetti Presocratici e la filosofia classica, quando aveva già passato i 40 anni combatté come oplita nella Guerra del Peloponneso. E’ riportato nel “Simposio” di Platone che fu decorato per il suo coraggio, e dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né mantello. Ma anche Platone, che sistemò l’insegnamento non scritto di Socrate come base della sua proposta filosofica di conciliazione tra Eraclito e Parmenide, combatté durante la Guerra del Peloponneso, e fu a sua volta decorato. Altro discepolo di Socrate che fu suo biografo è poi Senofonte, che si trovò alla testa di un gruppo di mercenari greci arruolatisi in una guerra civile persiana, e il cui ritorno in patria raccontò nell’“Anabasi”. E fu militare per un paio di anni anche Cartesio. Proprio in quel periodo, in una notte d’inverno si mise a meditare davanti a una stufa, e ne venne fuori il Cogito ergo sum, poi finito nel Discorso sul metodo.
Un po’ prima di Cartesio, ci fu Jacopo Aconcio. Nato in Trentino attorno al 1492, morto nel 1567 a Londra, dove era andato esule in quanto protestante. Filosofo e teologo, oltre che giurista, ma al suo tempo famoso soprattutto come ingegnere esperto in fortificazioni militari, competenza con cui sbarcò il lunario in esilio. Tre secoli dopo Cartesio, fu militare e filosofo Ludwig Wittgenstein, che allo scoppio della Prima guerra mondiale s’arruolò volontario nell’esercito austro-ungarico come soldato semplice in fanteria, fu poi ufficiale di artiglieria, combatté sul fronte russo e su quello italiano, e si guadagnò diverse onorificenze e medaglie al valore militare, prima di essere preso prigioniero. Mentre era soldato iniziò a scrivere il Tractatus logico-philosophicus. E fu assieme condottiero, filosofo e statista Federico II di Prussia. Definito “tiranno travestito da filosofo” da Rousseau, ebbe in compenso un rapporto complicato con Voltaire: prima amici, tanto che il re nominò il filosofo suo ciambellano; poi in litigio, al punto che Voltaire fu addirittura arrestato; poi di nuovo amici, come attesta un nutrito epistolario. I due avrebbero scritto assieme un “Antimachiavelli” che è però formalmente firmato solo da Federico II, di cui Indro Montanelli disse che “era talmente machiavellico da scrivere un libro contro Machiavelli per dimostrare che non lo era”.
Tra le opere di Niccolò Machiavelli c’è Dell’arte della guerra, scritta tra 1519 e 1520. Matteo Bandello, in una novella, ha raccontato di quella volta in cui “il nostro ingegnoso messer Niccolò Machiavelli sotto Milano volle far quell’ordinanza di fanti di cui egli molto innanzi nel suo libro de l’arte militare aveva trattato”. Ma “si conobbe alora quanta differenza sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha piú volte messe le mani, come dir si suole, in pasta”, dal momento che non gli riuscì in due ore di sistemare tremila fanti in una formazione su cui aveva a lungo scritto, fin quando al posto del “teorico” non venne il “pratico” Giovanni dalle Bande Nere, che sistemò il tutto in quattro e quattr’otto grazie a pochi comandi ben impartiti e all’ausilio di qualche tamburino. Alessandro Campi ha liquidato questa storia come falsa, in un suo recente libro su Machiavelli di cui abbiamo riferito sul Foglio. In realtà, effettivamente Machiavelli organizzò milizie, e le comandò pure. In particolare, nella campagna per la riconquista di Pisa nel 1509. Rappresenta dunque un ideale anello di congiunzione tra filosofi che fecero la guerra in senso concreto, e filosofi che si occuparono di guerra in senso teorico.
In questo gruppo, in realtà, sono di più coloro che si sono occupati di stabilire se e quando una guerra può essere giusta. E’ un filone che ha radici nel pensiero classico, in particolare con Aristotele e Cicerone. E’ stato poi trattato diffusamente nella teologia cattolica: Sant’Agostino, San Tommaso, Domingo de Soto, Luis de Molina, Francisco Suárez, soprattutto Francisco de Vitoria. Quest’ultimo, gesuita spagnolo, pone le premesse con cui l’olandese Ugo Grozio crea il moderno diritto internazionale. In epoca recente, il dibattito è stato ripreso dai cosiddetti Neocon.
Altri pensatori non si sono domandati se la guerra sia giusta, ma come sia giusto condurla per vincere. E’ la disciplina della Polemologia, e qua va ricordato come, nel 2012, il premio Pulitzer Thomas E. Ricks su Foreign Policy abbia redatto una Top Ten dei migliori classici di tutti i tempi. Dell’arte della guerra è al numero sette, e Machiavelli è in effetti l’unico filosofo doc della lista. Al numero dieci c’è poi La guerra del Peloponneso di Tucidide, lui stesso generale nella guerra di cui racconta. Non è convenzionalmente incluso nella filosofia vera e propria, ma è il primo vero e proprio libro di Storia della Storia, visto che quelli di Erodoto sarebbero piuttosto reportage. E’ questo infatti il testo che ha stabilito la maggior parte dei metodi standard della storiografia odierna, nonché il primo studio sullo sviluppo delle tecnologie militari. La sua teoria della potenza marittima più importante di quella terrestre anticipa L’influenza della potenza marittima sulla storia (1660-1783) di Alfred Thayer Mahan: libro, pubblicato nel 1890, che è il numero otto della lista, e che è considerato il massimo testo teorico sulla guerra navale. Tucidide e Machiavelli sono poi esempio di un’etica pagana che ancora affascina le élite militari.
Gli altri della lista non sarebbero invece filosofi doc. Primo: Sulla guerra di Carl von Clausewitz. Secondo: Alcuni principi di strategia marittima di Julian Stafford Corbett. Terzo: Storia dell’arte della guerra nel quadro della storia politica di Hans Delbrück. Quarto: Il dominio dell’aria dell’italiano Giulio Douhet, considerato il massimo teorico della guerra aerea. Quinto: Studio sul combattimento di Charles Ardant du Picq. Sesto: L’arte della guerra di Antoine-Henri Jomini. Nono: L’arte della guerra di Sun Tzu. Non c’è dubbio, però, che alcuni di questi siano espressione di un pensiero filosofico profondo, in senso lato. Clausewitz, ad esempio, era un ufficiale prussiano, nemico di Napoleone a tal punto che, quando la Prussia si alleò con lui, si arruolò nell’esercito russo; tuttavia, come direttore della Kriegsakademie, scrisse la sua opera magna proprio sviluppando gli insegnamenti delle campagne napoleoniche. L’opera principale dell’occidente sulla filosofia della guerra respinse la visione illuminista del conflitto come un caos confuso e ne spiegò invece il protrarsi nel tempo con l’economia e la tecnologia dell’epoca, le caratteristiche sociali delle truppe e la politica e la psicologia dei comandanti: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Insomma, si collocò nel filone dell’idealismo tedesco da Kant (che pure chiedeva la “pace perpetua”) a Hegel. Il cinese Sun Tzu, vissuto nel IV secolo a.C., è invece un teorico di una guerra asimmetrica per cui la vittoria migliore è quella che si ottiene senza combattere, che ne fa un vero e proprio anti-Clausewitz, ma anche un esempio della differenza di approccio tra filosofia orientale e occidentale. E’ stato pure osservato, ad esempio da Henry Kissinger, che la differenza è espressa anche dai due giochi di simulazione bellica per eccellenza: gli occidentali scacchi, anche se nati in effetti tra India e Persia e con versioni cinese e giapponese; e il cinese go.
Che dire, insomma? Non è che, alla fine, il rifiuto dell’Università di Bologna è giusto per le ragioni opposte a quelle di cui si sta parlando? Piuttosto che un corso di filosofia per militari fatto da civili, non potrebbe essere più stimolante un corso di filosofia della guerra anche per civili fatto da militari?
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