I cappi usati per le esecuzioni dei detenuti rinvenuti nel carcere di Sednaya (foto Getty)

l'archivio degli orrori

La Siria scopre i dettagli dei massacri di Assad nel “Damascus Dossier”

Luca Gambardella

Dopo mesi di richieste da parte degli attivisti e delle ong siriane, sono state diffuse le foto dei corpi dei dissidenti martoriati dal regime. Nessuna pietà, nemmeno per i neonati

“Ci sono cose che le persone devono conoscere. Ci sono famiglie che vogliono sapere dove sono finiti i propri cari e cosa gli è successo”. Così, un oscuro funzionario dell’Unità di conservazione delle prove della polizia militare siriana ha rivelato ad alcuni giornalisti i segreti dell’immensa macchina della tortura del regime di Bashar el Assad. Una mole gigantesca di documenti e fotografie resa finalmente pubblica ieri e che ha fatto sprofondare il paese in una delle giornate più nere, proprio a ridosso del primo anniversario della caduta del regime. In questi giorni, mentre in molte piazze della Siria si danno appuntamento migliaia di persone per celebrare il successo di una rivoluzione che ha avuto la meglio sul dittatore, le nuove rivelazioni dei suoi crimini scoperchiano invece un vaso di Pandora.  

 

Le autorità di Damasco, per timore di scatenare ulteriore rabbia nei confronti dei vecchi sodali del regime e non destabilizzare un equilibrio sociale già precario, hanno sempre cercato di posticipare il più possibile la pubblicazione dei documenti e delle prove dei massacri di Assad. Ma d’altra parte “ci sono cose che le persone devono sapere” e conoscere le sorti di coloro che il regime ha fatto sparire nel nulla è da sempre considerato un atto dovuto dai siriani, un dolore necessario. 

Le foto e i dati resi pubblici da un pool di giornalisti internazionali riguardano oltre 10 mila persone recluse, torturate e uccise dai servizi segreti del regime tra il 2015 e il 2024. Ed è come se Sednaya, la più famigerata delle carceri del regime, fosse stata riaperta una seconda volta. E’ come se improvvisamente fosse riemersa una delle fantomatiche celle segrete che i parenti dei detenuti scomparsi cercarono inutilmente per settimane, scavando a mani nude, con l’illusione di ritrovare i resti dei propri cari. Le immagini sono terribili. Un campione di 540 foto è stato sottoposto dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi, da Ndr e dalla Süddeutsche Zeitung ad alcuni esperti. I corpi di tre vittime su quattro mostravano i segni della privazione del cibo, due su tre avevano ferite come bruciature e lacerazioni, la metà di questi era nuda, il 75 per cento gettato per terra, sono identificati solamente da un numero, spesso marchiato direttamente sulla pelle. Il corpo di Mazen al Hamada, uno dei volti della rivoluzione siriana, mostra sul suo braccio il numero 1.174. Era stato arrestato per la prima volta nel 2011. Rilasciato, aveva abbandonato la Siria per poi farvi ritorno nel 2020. Fu catturato di nuovo e condotto a Sednaya, dove è morto. Il numero 2.389, invece, è un neonato. 

 

Dopo mesi di richieste insistite da parte degli attivisti e delle ong siriane affinché tutto questo materiale diventasse di pubblico dominio, ora che è successo la Siria sembra di nuovo paralizzata dal dolore. Nessuno vuole parlare perché è come se vecchie cicatrici fossero state riaperte. Per altri, ancora alla ricerca dei propri cari, i documenti resi pubblici sono un elemento fondamentale per conoscerne le sorti. Il sentimento che ne deriva, raccontano, è duplice: la conquista della verità e la sofferenza per la perdita. 

Diecimila file, nomi, foto, corredati con pochi dettagli, scritti a penna su moduli precompilati: “Mentre gli si prestavano le cure nel pronto soccorso, il detenuto Imad Saeed al Najjar non ha risposto alla rianimazione, nonostante il tentativo continuato per 30 minuti fino al momento della morte”. In altri casi le informazioni sono ancora più sintetiche: “Yamen Awad al Khalif … data di arresto 8/27/2012 … morte 9 gennaio”. Molti dei certificati ritrovati presso gli ospedali militari di Harasta e Tishreen riportano la dicitura “arresto cardiaco” o “arresto cardiorespiratorio” per indicare le cause della morte. Secondo un dottore di Harasta, sentito dall’emittente tedesca Ndr, questi documenti gli arrivavano già precompilati e a lui bastava semplicemente firmarli. La repressione del dissenso avveniva come fosse una catena di montaggio, in cui una miriade di agenti e funzionari dei servizi agiva seguendo in automatico un rigido protocollo, da meri ingranaggi del sistema che massacrava su base burocratica.

Questi primi 10 mila file sono solo una piccola parte del cosiddetto “Damascus Dossier”, una montagna di documenti riservati, circa 134 mila file in totale, ottenuti dall’emittente tedesca Ndr. Oltre a svelare il funzionamento dettagliato del sistema di repressione del regime, l’archivio porta alla luce anche sovvenzioni milionarie, pari a 11 milioni di dollari, versate dalle agenzie delle Nazioni Unite a beneficio di Shorouk, una società di sicurezza legata ad Assad. Coincidenza, proprio ieri, per la prima volta dalla caduta del regime una delegazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu è stata accolta a Damasco dal presidente Ahmed al Sharaa. L’obiettivo è fornire una valutazione sulla situazione del paese, che mostra ancora tutte le sue cicatrici. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.