Ansa
Editoriali
La Cina vuole dominare tutti i mari e riscrivere le sue regole
Pechino rafforza la sua presenza nell'Organizzazione marittima internazionale (Imo) e inaugura una missione permanente nel quartier generale a Londra
La Repubblica popolare cinese sta consolidando la sua influenza nel settore marittimo non solo sul piano industriale, ma anche dove si scrivono le regole della navigazione mondiale. All’ultima assemblea dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo), istituto specializzato dell’Onu, la Cina non solo è stata rieletta per la diciannovesima volta consecutiva nel Category A, cioè l’élite dei paesi con il “più grande interesse” nella fornitura di servizi marittimi, ma è stata anche il paese più votato in assoluto – 155 voti su 169. E’ un primo segnale politico, perché dice che una larga parte dei membri dell’Imo considera Pechino un interlocutore centrale per la sicurezza e il funzionamento delle catene globali.
E sempre pochi giorni fa, per rafforzare questo posizionamento, la Cina ha inaugurato una missione permanente nel quartier generale dell’Imo a Londra – dove a breve dovrebbe essere inaugurata peraltro la mega-ambasciata alla Royal Mint – che significa più personale dedicato, più diplomazia, più peso politico. Ma in questo disegno c’è qualcosa di ambiguo e inquietante: l’enorme influenza marittima che la leadership di Pechino sta guadagnando negli ultimi anni corrisponde anche a un momento in cui la libertà dei mari è sotto pressione proprio a causa delle rivendicazioni e delle pratiche cinesi, dal Mar cinese meridionale a quello orientale. Pechino difende il “libero commercio” – libero soprattutto per le sue navi: in poco più di vent’anni è passata dal detenere il 5 per cento della cantieristica globale a superare il 50 per cento – ma allo stesso tempo porta avanti pretese marittime unilaterali, costruisce infrastrutture dual-use, esercita coercizione contro pescherecci e flotte rivali e sperimenta forme di controllo dei flussi navali. A questo si aggiunge un impero portuale che conta 96 scali esteri controllati o gestiti da aziende cinesi, 65 dei quali in mano a imprese statali. Un impero che preoccupa anche i governi europei, che però non prendono misure radicali per arrestare l’influenza politica cinese.