Che gli avversari politici siano bollati come malati di mente è un ulteriore segnale della crescente polarizzazione politica in atto negli Stati Uniti (Getty)
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Manicomio Trump. I danni del linguaggio psichiatrico usato come arma politica
Cinque senatori repubblicani hanno presentato una proposta di legge per inserire la “Trump Derangement Syndrome” (TDS) nella lista delle malattie mentali ufficialmente riconosciute. Il tentativo di delegittimare il dissenso, ricorrendo a categorie psichiatriche, non è una novità
Nel marzo di quest’anno, al Senato del Minnesota, cinque senatori repubblicani hanno presentato una proposta di legge per inserire la “Trump Derangement Syndrome” (TDS) nella lista delle malattie mentali ufficialmente riconosciute dallo stato americano. Il Bill to the State of Minnesota definiva la patologia come “una condizione di paranoia e isteria aggressiva in persone altrimenti normali, in reazione alle politiche e alla presidenza di Donald Trump”, che “produce una incapacità di distinguere tra legittime differenze politiche e segnali di patologie psichiche nel comportamento del presidente Trump”. La proposta, che non aveva alcuna possibilità di passare e finì nel nulla, suscitò l’indignazione di Erin Murphy, capa della maggioranza democratica al Senato di Saint Paul, che la definì “inutile, frivola e vergognosa”. “Se è uno scherzo – commentò Murphy – è uno spreco di denaro dei contribuenti che banalizza un tema drammatico come la salute mentale. Se i proponenti sono seri, allora è un affronto alla libertà di parola e segnala un pericoloso livello di fedeltà a un presidente autoritario. I cittadini sono scandalizzati”.
Non è la prima volta che qualcuno diagnostica una “sindrome presidenziale”. Nel 2003, l’analista conservatore e psichiatra Charles Krauthammer affermò che coloro che sostenevano che George W. Bush nascondesse qualcosa sugli attentati dell’11 settembre 2001, soffrivano di “Bush Derangement Syndrome”. Anche durante la presidenza di Barack Obama, il termine “Obama Derangement Syndrome” venne evocato da alcuni democratici per i cosiddetti “birthers”, quelli secondo i quali egli non era nato negli Stati Uniti – una bugia alimentata, fra gli altri, anche da Donald Trump. La novità della TDS è che lo stesso Trump ha fatto sua la definizione, e l’ha strumentalizzata a proprio vantaggio. Quando, per esempio, il suo rapporto privilegiato con Putin è diventato oggetto di contestazione, il presidente ha accusato chi lo criticava di soffrire di Trump Derangement Syndrome. Di più, il presidente ha fatto nomi e cognomi, sostenendo che l’attore Robert De Niro, la giudice della Corte Suprema Sonia Sotomayor e perfino il suo ex capo di gabinetto John Kelly, che lo ha accusato di essere un fascista, soffrono di TDS. Neppure Elon Musk, dopo la clamorosa rottura col presidente dello scorso giugno, si è risparmiato la diagnosi presidenziale di essere preda della sindrome d’impazzimento da Trump.
Bollare gli avversari politici come malati di mente è un ulteriore segnale della crescente polarizzazione politica in atto negli Stati Uniti. Studi e ricerche hanno già confermato che la faglia ideologica e affettiva continua ad ampliarsi, tracimando nella sfera sociale, dove i militanti duri e puri di una parte evitano quelli dell’altra negli spazi pubblici, sui luoghi di lavoro e nelle relazioni interpersonali. La polarizzazione non risparmia neppure le élite, che tendono a dipingere gli avversari politici come pericolosi, né i matrimoni, visto che continuano a diminuire quelli tra le persone registrate come democratiche e quelle che si professano repubblicane. Non è del tutto nuovo che politici americani cerchino di delegittimare il dissenso, ricorrendo a categorie psichiatriche per definire i propri rivali. Nel 1964, durante la campagna per la nomination di Barry Goldwater a candidato repubblicano per la Casa Bianca, il periodico Fact, specializzato nel sollevare temi controversi, chiese a 12.356 psichiatri se considerassero Goldwater, personalità molto colorita e irascibile, fit for office, adeguato alla carica. Risposero in 2417, e quasi la metà di loro disse di no, descrivendo il candidato conservatore “emotivamente instabile”, “immaturo”, “amorale e immorale”, “personalità paranoica”, “pericoloso lunatico”. Goldwater querelò il magazine e vinse la causa. Probabilmente Lyndon Johnson, che trionfò a valanga, sarebbe stato eletto lo stesso, ma il danno alla campagna del repubblicano fu innegabile. In conseguenza dello scandalo, l’American Psychiatric Association introdusse la “Goldwater Rule”, che da allora proibisce agli esperti di malattie mentali di fare valutazioni su figure pubbliche in assenza di visite specialistiche personali. Un divieto valido tutt’oggi, ma che evidentemente è servito a poco.
La storia ci insegna che è tipico dei regimi autoritari silenziare il dissenso, bollando gli oppositori come mentalmente instabili. Durante la Guerra fredda, in Unione sovietica, il regime comunista usava rinchiudere i dissidenti nei manicomi: tra il 1970 e la metà degli anni Ottanta, almeno a un terzo di loro venne diagnosticata una “forma leggera di schizofrenia”. Quanto alla Russia di Putin, attualmente ci sono almeno 50 casi verificati di trattamenti psichiatrici forzati nei confronti di persone che hanno manifestato contro la guerra in Ucraina. Anche il governo cinese ha usato lo stesso strumento: ha definito i membri del movimento religioso conservatore Falun Gong come “non sani di mente” per essersi opposti al comunismo e ha fatto internare centinaia di loro. Nel 2022, in Iran, quando gli studenti scesero in piazza per protestare contro l’uccisione di Mahsa Amini, il ministero dell’Educazione dichiarò che i dimostranti erano affetti da “disturbo antisociale della personalità”.
Gli Stati Uniti d’America sono ancora una democrazia forte. Ma strumentalizzare il linguaggio psichiatrico per polarizzare l’opinione pubblica, com’è il caso del Minnesota, legittima l’ostilità e incita all’aggressione. Detto altrimenti, crea il contesto di odio in cui trova sbocco la violenza. Secondo il Pew Research Center dagli anni Novanta del secolo scorso a oggi, la percentuale di repubblicani che ha un’opinione “molto negativa” del partito democratico sarebbe aumentata di tre volte, dal 21 al 62 per cento, con una tendenza simmetrica tra i democratici, dove la visione “molto negativa” del Grand Old Party è passata nello stesso periodo dal 17 al 54 per cento. La correlazione tra demonizzazione dell’avversario e violenza è molto stretta. Se questo è un nemico, allora tutti gli strumenti sono leciti per ostacolarlo e bloccarne l’accesso al potere. Ricorrere alla violenza diventa uno strumento necessario, o, meglio un dovere patriottico – basti pensare all’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Numerosi studi e sondaggi evidenziano questa crescente accettabilità della violenza politica, in particolare da parte di chi si trova all’opposizione: diverse rilevazioni convergono che una percentuale assai alta di elettori democratici, tra il 30 e 40 per cento, riterrebbe oggi ammissibile l’uso della violenza politica contro l’avversario. Ma la percentuale era anche più alta fra i repubblicani negli anni dell’amministrazione Biden, e non è diminuita ora che sono al potere.
Ha suscitato giusta indignazione e orrore l’assassinio di Charlie Kirk, la figura forse più influente della galassia Maga. E la destra conservatrice ed estrema, non soltanto negli Stati Uniti, ha accusato la sinistra di aver alimentato la retorica dell’odio che l’ha ispirato. “Odio i miei nemici”, ha detto Trump parlando al suo funerale. Ma è un fatto che l’estate si era aperta con l’omicidio della deputata democratica del Minnesota, Melissa Hortman, e di suo marito, trucidati a casa loro da un estremista cristiano contrario all’aborto e ai diritti lgbtq. Di più, proprio nelle ore successive all’assassinio di Kirk, tra il 10 e l’11 settembre scorsi, il dipartimento di Giustizia ha rimosso dal proprio sito uno studio dell’Istituto Nazionale di Giustizia che analizzava il trend del terrorismo domestico negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Dall’analisi risultava che, dal 1990, la maggior parte delle uccisioni motivate da ragioni ideologiche era stata compiuta da attivisti di estrema destra, rispetto a individui o gruppi di estrema sinistra o a islamisti radicali.
Ma torniamo alla TDS. Non c’è dubbio che attribuendola agli avversari si voglia delegittimarli. Ma ha destato stupore e innescato una discussione controversa il saggio pubblicato sul Wall Street Journal a firma di Jonathan Alpert, uno psicoterapeuta che opera a New York e Washington. Premettendo che “nessun serio professionista delle patologie mentali formulerebbe una diagnosi così partigiana e derogatoria”, Alpert fa tuttavia una rivelazione clamorosa: “La Trump Derangement Syndrome l’ho vista io nel mio studio medico”. Ma attenzione, lo stress è sintomatico, non ideologico: “Parlano di Trump durante la terapia non per discutere di politica, ma per elaborare rabbia, ossessione e paura”. Dal punto di vista clinico, molti di questi pazienti manifestano segni di ansia e disturbo ossessivo-compulsivo: pensieri intrusivi, sbalzi emotivi, notti insonni, controllo continuo delle notizie, stato di agitazione fisica. “Molti mi confessano che non riescono a smettere di pensare a Trump e interpretano ogni sua mossa come una minaccia alla democrazia e alla loro sicurezza personale”. All’inizio Alpert era convinto si trattasse di una reazione ideologica, una risposta comprensibile a una figura molto divisiva. Ma nel tempo i sintomi hanno delineato un vero quadro clinico, non più indignazione ma una “fissazione che distorce le percezioni e consuma l’attenzione”.
Uno dei pazienti gli ha raccontato di aver rinunciato a una vacanza con la famiglia, perché considerava sbagliato rilassarsi mentre Trump è alla Casa Bianca. Altri si lamentano di non poter prendere sonno ogni volta che lo vedono in televisione. Lo schema funziona anche a livello di gruppo, come una sindrome caratterizzata culturalmente e prodotta da “detonatori sociali condivisi all’interno di un contesto specifico”. Insomma, spiega lo psicoterapeuta, ce n’è abbastanza per non liquidare la TDS solo come una provocazione di parte repubblicana e prenderla invece in seria considerazione individuando un percorso terapeutico. Che, spiega Alpert, “deve aiutare i pazienti a separare le loro ansie dalla figura politica su cui le hanno proiettate”. Trump, infatti non è la patologia, ma colui che la provoca, lo schermo sul quale si scaricano le insicurezze irrisolte. Uno dei problemi che rendono ossessiva la preoccupazione politica legata alla figura di Trump è il suo continuo rafforzamento collettivo, attraverso i social media, i siti di notizie dichiaratamente di parte: ogni manifestazione provoca un fugace sollievo che rinforza il ciclo.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Nel suo studio, infatti, Alpert ha osservato un gruppo (più piccolo) di pazienti sostenitori di Trump, i quali manifestano sintomi di ansia e senso di persecuzione tutte le volte che il presidente viene criticato, come se un attacco a lui fosse un attacco personale rivolto a loro: “In entrambi i casi l’emozione rimpiazza la ragione e la distanza psicologica crolla”. Alpert parla di una vera e propria politicizzazione dello stress, dove l’ansia prodotta dalla politica diventa una performance morale. Il fenomeno poteva essere osservato già nel 2016, dopo la prima elezione di Trump: incredulità, rabbia, panico. Ma ora si è cronicizzato: “Durante la campagna del 2024 molti pazienti hanno espresso una sorta di terrore rassegnato di fronte alla continua presenza di Trump al centro della vita nazionale. Perfino sentire il suo nome può innescare in molti di loro una risposta fisiologica: non reagiscono all’uomo ma a ciò che simboleggia, l’incarnazione del caos, del pericolo e della perdita di controllo”.
La sfida terapeutica è aiutare i pazienti a limitare l’esposizione all’informazione, che rischia di rafforzare l’ossessione, identificare distorsioni cognitive e tollerare l’incertezza in modo da recuperare la flessibilità psicologica necessaria a mettere tutto in prospettiva. I pazienti devono imparare a differenziare, separando l’ansia che hanno dentro dalla realtà esterna, guardando a Donald Trump non come una proiezione emotiva, ma come una figura il cui significato può essere relativizzato: “L’obiettivo – conclude Alpert – non è sentirsi al sicuro da Trump, ma sentirsi stabili nonostante Trump. Non possiamo avere una democrazia in salute se metà del Paese vive l’altra metà come il fattore scatenante di un trauma”.
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