L'ultimo arrivato
Dan Driscoll ha detto agli ucraini: non potete vincere. L'ultimo arrivato del disfattismo trumpiano
Nella settimana più confusa del negoziato, il segretario dell'Esercito americano diventa il volto della pressione americana su Kyiv: tra piani di pace scritti a Mosca, divisioni nell’Amministrazione Trump e un messaggio che suona come resa anticipata, mentre i russi restano fermi sulle loro condizioni
Voi ucraini non potete vincere, i russi producono più missili a lungo raggio di quanti ne lanciano, le loro riserve sono piene, vi conviene accettare un accordo in fretta. E’ questo – secondo le ricostruzioni laboriose che molti media stanno pubblicando per mettere ordine nel caos negoziale dell’ultima settimana – il messaggio che il ministro dell’Esercito americano (è un sottosegretario del Pentagono), Dan Driscoll, faccia da ragazzo con le gote rosse, ha portato a Kyiv assieme al piano di pace in 28 punti di fabbricazione russa. Non potete vincere quindi dovete fermarvi subito: è questo il punto cruciale tra chi vuole una pace giusta per gli ucraini e chi vuole una pace purchessia. Fermare l’Ucraina significa condannarla a una decurtazione del suo spazio nazionale e a una certa, futura invasione russa.
Ma l’Amministrazione Trump ha impostato quest’ultima fase negoziale – strutturata dall’inviato Steve Witkoff assieme ai negoziatori russi e con il beneplacito del vicepresidente J. D. Vance – proprio esercitando pressioni su Kyiv, non sulla Russia, che come è noto può fermare la guerra in qualsiasi momento, visto che l’aggressione è la sua. Quando il segretario di stato, Marco Rubio, dipinto con eccessiva superficialità come quello che ha aggiustato il famigerato piano iniziale, dice che gli ucraini devono prima firmare un accordo e poi discutere delle garanzie di sicurezza contro una nuova guerra russa, ribadisce di fatto la strategia della pressione sull’Ucraina e non sulla Russia. Rubio ha forse aggiustato qualche eccesso, si è ritagliato un proprio spazio che inizialmente non gli era stato concesso, si è tolto qualche sassolino dalla scarpa dicendo ad alcuni senatori che quel piano non era americano, e poi ha ritrattato tutto, definendo “fake news” tutte le informazioni uscite sullo scontro interno all’Amministrazione (e su X, Vance gli ha dato ragione: un’offerta di tregua?), ma non ha smesso di fare pressioni su Kyiv, nella migliore delle ipotesi le ha un pochino ridotte. E qui s’inserisce Dan Driscoll, il nuovo arrivato, l’amico d’università di Vance (dice apertamente che è soltanto grazie a questa amicizia che è arrivato dov’è), definito da Donald Trump “drone guy” perché è appassionato di tecnologia militare, benvoluto anche da democratici insospettabili, chiacchierone, disponibile con i giornalisti, insomma uno sconosciuto ai più ma non dove conta.
Era già deciso che Driscoll guidasse la delegazione del Pentagono prevista a Kyiv la settimana scorsa, ma poi si è ritrovato a giocare una partita più grande, diventando di fatto uno degli emissari degli americani. A suo merito va detto, come ha scritto il Wall Street Journal, che il suo interesse per l’Ucraina è genuino e anche positivo: occupandosi dell’esercito, sa bene che le Forze armate ucraine sono all’avanguardia e che sono le migliori sul campo, non foss’altro perché combattono una guerra vera da quasi quattro anni. In più gli ucraini sono ingegnosi, innovatori, hanno cambiato più volte il modo di difendersi e il modo di scardinare, per quanto possibile, la macchina bellica russa con gli attacchi contro arsenali e impianti petroliferi: sono un esempio, oltre che una difesa attiva per tutta l’Europa. Per questo il primo istinto di Driscoll era quello di condividere la curva di apprendimento strepitosa dell’esercito ucraino: “L’Ucraina aggiorna i software dei suoi droni ogni due settimane”, aveva detto il mese scorso, mentre l’equipaggiamento americano è spesso obsoleto.
Ma poi dal livello tecnico si è passati a quello diplomatico, e Driscoll è diventato il portavoce del disfattismo americano. Lo ha comunicato agli ucraini, lo ha comunicato agli europei e poi – dopo aver fatto anche parlare al telefono il vicepresidente Vance e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky venerdì scorso: dopo la conversazione, Zelensky ha fatto quel discorso epico sulla dignità ucraina e il rischio di perdere l’alleato americano – è stato scelto per andare ad Abu Dhabi a incontrare anche i russi. Solo che i russi, che sono spietati e diplomaticamente abili (soltanto ieri, dopo sette giorni, Vladimir Putin ha parlato e ha detto, di fatto, il suo ennesimo, prevedibilissimo “no”: o gli ucraini si arrendono o li facciamo arrendere con le bombe, che sorpresa!), non hanno voluto incontrare Discroll, perché non sapevano in quale ruolo si presentava e quale fosse il suo mandato.
Quindi il bilancio della missione del giovane Driscoll è: ha fatto pressione sugli ucraini e non ha ottenuto nulla dai russi. Di certo non verrà criticato per questo e ora tornerà a occuparsi di quello che sembra essere il suo vero mandato: scalzare Pete Hegseth, il segretario alla Difesa. Solitamente nelle guerre ci sono visioni contrastanti tra il Pentagono e la Casa Bianca, conflitti strategici, report a dimostrazione dell’una o dell’altra tesi. In questo caso, il capo del Pentagono si occupa di controllare che i generali non abbiano la barba e si mettano a dieta, nonché di epurare tutti quelli che possono avere una visione differente da quella prevalente (che è America first, e l’Ucraina non è la nostra guerra). Secondo Politico, a Trump va bene così, vuole che Hegseth si dedichi alle guerre culturali, ma il segretario alla Difesa “si guarda le spalle”, scrive Julia Ioffe su Puck: Driscoll incombe, ambizioso e pronto a tutto per assecondare l’amico e il capo.