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Sono tanti gli adulatori nella stanza di “daddy” Trump, ma poi non ottengono quasi nulla

Paola Peduzzi

Dal suggerimento di Witkoff ai russi per pilotare la telefonata di Putin col presidente rivela il metodo: loda Donald e avrai ascolto. È la “daddy diplomacy”. Dalla Nato all'Ue, tutti si uniformano, ma l’adulazione assicura attenzione, non concessioni politiche

L’inviato americano Steve Witkoff, palazzinaro malauguratamente convertito alla diplomazia, sa che cosa funziona con il suo capo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, e quindi, avendo molto a cuore i russi, ha dato il consiglio-chiave al consigliere di Vladimir Putin. Digli di fare i complimenti a Donald Trump, ha detto Witkoff a Yuri Ushakov preparando la telefonata tra i due presidenti che si è tenuta il 16 ottobre, digli che la Russia sostiene il piano di pace a Gaza e che il presidente Trump è proprio un uomo di pace: vedrai che “dopo sarà sicuramente una buona conversazione”. Il 17 ottobre era prevista la visita di Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca, dopo l’incontro a margine dell’Assemblea generale dell’Onu che era andata bene, e nei giorni in cui non soltanto Trump valutava l’invio dei missili a lungo raggio Tomahawk, ma mostrava anche la sua insofferenza nei confronti di Putin, “che non vuole mettere fine alla guerra”. Witkoff  evidentemente non voleva che l’incontro alla Casa Bianca con Zelensky andasse bene e quindi suggerisce a Ushakov di organizzare una telefonata tra Putin e Trump e poi fornisce la tattica per ingraziarsi il presidente americano.

  

Witkoff conferma quel che già i leader internazionali hanno capito (compreso Putin): bisogna dire a Trump che è il migliore di tutti, che grazie a lui il mondo è un posto migliore, che solo lui sa guidare l’America, che si merita il Nobel e tutti i premi e i complimenti. Bravissimo Trump, grazie: non bisogna dimenticarsi di ringraziare perché nel suo vittimismo cronico, il presidente pensa di essere circondato da ingrati.

  
Come per un po’ tutto, l’insegnamento ci è arrivato dal presidente ucraino Zelensky, che ha subìto l’imboscata ordita da J. D. Vance, il vicepresidente antiucraino, al primo, terrificante incontro nello Studio ovale a febbraio e poi da un lato è diventato il paradigma di quel che non deve succedere – tutti i leader internazionali che si sono successivamente presentati in quell’ufficio avevano un unico pensiero: non devo finire come Zelensky – e dall’altro ha preso subito le misure giuste e ha imparato a mostrare gratitudine e apprezzamento a Trump anche mentre i collaboratori di Trump lavorano con i russi per annichilire l’Ucraina. Ha anche scoperto un’altra cosa, Zelensky: Trump ama i vincitori, come si è visto anche nel suo incontro delizioso con il prossimo sindaco di New York, Zohran Mamdani. Per questo il presidente ucraino si è messo a spiegargli i blitz contro le infrastrutture russe (Trump gli ha anche detto: perché non colpisci Mosca?) e le misere conquiste territoriali russe, e lui lo ha ripagato dicendo: l’Ucraina può vincere. 

  

Gli altri leader hanno capito e interpretato a loro modo la loro adulazione. La menzione speciale va al segretario generale della Nato, Mark Rutte, che in occasione del vertice all’Aia ha mandato messaggi scritti a Trump (che li ha resi pubblici) di questo tenore: “Donald, ci hai condotto verso un momento davvero importante per l’America, l’Europa e il mondo. Riuscirai a ottenere cose che nessun presidente americano da decenni è riuscito a realizzare”, e l’Europa metterà tutti i soldi che servono nella Nato, “come deve”, e “sarà la tua vittoria”. In pubblico poi Rutte ha chiamato Trump “daddy” contribuendo così a dare un nome a questa dittatura dell’adulazione: è la “daddy diplomacy”, come l’hanno ribattezzata alcuni centri studi americani, e nessuno si è più sentito escluso. 

  

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha espresso il desiderio di “ringraziare personalmente” il presidente Trump e la sua “leadership” che hanno permesso di arrivare “a questa svolta”: era la fine di luglio, l’Ue aveva sottoscritto l’accordo sui dazi accettando compromessi punitivi anche perché pensava di poter ottenere in cambio un allineamento con gli americani sulla gestione dell’Ucraina (una delle tante illusioni europee). Mark Carney, premier canadese che ha fatto una campagna elettorale con “i gomiti in alto” contro le minacce trumpiane di dazi e di annessione, a ottobre si è addirittura scusato con Trump per una pubblicità televisiva – per cui il presidente americano si era molto offeso – che non aveva nulla a che fare né con il governo né con Carney stesso. Il premier britannico Keir Starmer si è presentato nello Studio ovale con l’invito di re Carlo a una visita di stato nel Regno, la seconda per il presidente Trump, e un suo personale primato di cui va orgogliosissimo (e infatti, sia allora sia quando effettivamente è andato in visita, Trump è stato docile e gioioso, si è addirittura lasciato fare qualche critica dal re). Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, che tra i leader europei è stato spesso quello più netto nel dire che è necessario attrezzarsi per un mondo senza l’aiuto dell’America e che subisce l’ingerenza di Vance nella sua politica interna (un’ingerenza a favore dell’estrema destra antieuropea e filorussa dell’AfD), è stato molto conciliante quando è stato il suo turno nello Studio ovale e ha evitato di essere puntiglioso pure quando Trump ha detto cose spiacevoli sull’Ucraina e pure sui tedeschi. La premier italiana, Giorgia Meloni, “la bella ragazza” come la chiama Trump, ha telefonato a Trump in questi giorni caotici di piani di pace russi passati per piani di pace americani e poi ha detto ai giornalisti la sua linea cauta: si lavora sul piano degli americani, che è il punto di partenza, anche se nemmeno lo stesso Trump sa dire qual è davvero il “piano finale”. In America, l’adulazione è diventata un format: i Consigli dei ministri in diretta tv sono un giro di tavolo in cui ognuno dice al presidente che è bravissimo.

 

Il problema, che ancora molti non vogliono affrontare, è che l’adulazione permette sì di avere l’attenzione di Trump, ma non di ottenere qualcosa da lui: come scrive l’analista Phillips OBrien, “continuiamo a trovare giustificazioni per Trump, fino a quando lui ci distruggerà”. 
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi