L'Italia manda il primo segnale di derisking con la Cina sui pomodori
Il crollo del 76 per cento delle importazioni di concentrato di pomodoro cinese verso l’Italia rivela un cambio di rotta. Mentre il governo oscilla tra sospetti geopolitici e nuovi equilibri con l’America di Trump, sono le aziende a prendere l’iniziativa sul lavoro forzato nello Xinjiang e sulla concorrenza sleale, lasciando la politica in ritardo
C’è un primo, piccolo segnale da parte delle aziende italiane che va verso la direzione del derisking con la Cina, e riguarda i pomodori. Secondo i più recenti dati di Tomato News, le esportazioni cinesi di passate di pomodoro verso l’Europa sono diminuite considerevolmente nel 2025, e la causa della drastica riduzione è l’Italia, che nel terzo trimestre di quest’anno ha ridotto le sue importazioni del 76 per cento. Più che un dato puramente commerciale e agricolo, si tratta di una notizia politica: il governo italiano è stato finora tra i più restii in Europa ad approvare la direttiva contro la filiera del lavoro forzato, ma da tempo le aziende italiane chiedevano più trasparenza su importazioni e produzione.
Per anni l’Italia ha importato tonnellate di concentrato di pomodoro dalla Cina, per lo più prodotte nella regione dello Xinjiang e ottenute grazie al sistema di sfruttamento dei lavori forzati della minoranza etnica degli uiguri, che poi venivano processate in Italia e rivendute (soprattutto all’estero) col marchio “made in Italy”. All’inizio del 2024 il tema era finito sulle prime pagine dei giornali internazionali soprattutto perché metteva in luce il metodo cinese: oltre alla scelta etica, il lavoro forzato di una minoranza perseguitata permette alla Repubblica popolare cinese di mantenere i costi di produzione bassissimi, facendo quindi concorrenza sleale.
A chiedere un intervento urgente sulla questione era stata soprattutto parte dell’industria italiana: in una famosa intervista al Financial Times, Francesco Mutti, a capo della storica azienda produttrice di prodotti a base di pomodoro, aveva detto che l’Italia doveva “bloccare l’importazione di concentrato di pomodoro dalla Cina o applicare una tassa del 60 per cento in modo che il suo costo non sia così diverso da quello dei prodotti italiani”. Più o meno nello stesso periodo anche Coldiretti si era mobilitata, c’erano state diverse manifestazioni davanti ai cargo dei pomodori cinesi importati, e il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida aveva timidamente fatto sentire la propria presenza, partecipando a un’ispezione notturna dei Carabinieri: “In Italia entreranno solo alimenti sicuri e prodotti secondo le regole”. Poi però il governo più sovranista d’Italia non solo si era astenuto in Europa al voto sulla normativa alle regole su sostenibilità e dovere di diligenza – un testo che ora viene riproposto dalle destre europee piuttosto annacquato e a larghe maglie – ma Lollobrigida aveva avanzato perfino l’ipotesi di un complotto americano che avrebbe spiegato tutta questa attenzione al pomodoro dello Xinjiang e che gli era costata anche una conversazione sul tema con l’allora ambasciatore americano a Roma, Jack Markell: “Evitare di importare dalla Cina”, aveva detto Lollobrigida un anno e mezzo fa, “significa lasciare agli americani” – principali produttori di pomodoro al mondo – “la fetta di mercato”. Ora però evidentemente l’Amministrazione americana è cambiata, Trump è un amico e la sua guerra dei dazi spinge la politica italiana ad aumentare l’import dall’America. E così ieri, alla notizia della drastica riduzione dell’import di pomodoro dalla Cina, il ministro dell’Agricoltura ha commentato così i dati sull’import, come un “segnale importante per la nostra filiera”: “La nostra non è una battaglia contro l’import, ma contro la concorrenza sleale: contro chi sfrutta il lavoro o maschera l’origine reale dei prodotti”. Un sorprendente dietrofront, che mette in luce la difficoltà della politica a essere chiara e coerente nei confronti di Pechino, e che finisce spesso per essere sorpassata autonomamente dalle aziende.
Una simile confusione devono averla provata anche gli atenei italiani: un anno fa la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, insieme con il sottosegretario Alfredo Mantovano, aveva lanciato un programma per mettere in sicurezza la ricerca italiana in linea con le direttive europee per salvaguardare atenei e centri studi dal “trasferimento indesiderato di conoscenze, ingerenze straniere e violazioni dell’etica o dell’integrità” – destinate soprattutto al controverso rapporto con la Cina. Eppure solo tre giorni fa, Bernini era in Cina con il ministro dell’Istruzione cinese Huai Jinpeng, dove sono stati firmati ben 31 nuovi accordi fra università italiane e cinesi. Ma non dovevamo fare derisking?