FOTO Ansa
magazine
Francisco Franco, chi? In Spagna, la damnatio memoriae del Caudillo in 50 anni di democrazia
Il 20 novembre 1975 il paese ricorderà la fine del regime violento e il ritorno della monarchia come forma dello stato. In mezzo, il governo in crisi di Pedro Sanchez: occupazione giovanile ferma, edilizia popolare promessa non realizzata e un terzo della popolazione a rischio povertà
Ci scherzano su, gli spagnoli. O almeno la metà di loro, visto che le Spagne sono almeno due. Las dos Españas dei versi di Machado e delle teorie di Unamuno. Ci scherzano sopra con quell’umorismo irriverente che viene usato proprio quando si parla di argomenti seri. Un’ironia finalizzata a sdrammatizzare e, forse, a riflettere insieme. Per affrontare una crisi politica e istituzionale mai vista in cinquant’anni di democrazia. E per affrontare il carico simbolico del doppio anniversario che ricorre in questi giorni: mezzo secolo dalla morte del dittatore Francisco Franco il 20 novembre del 1975; mezzo secolo dal ritorno della monarchia come forma dello stato con la proclamazione del re Juan Carlos I di Borbone il 22 novembre davanti alle Cortes franchiste. Le due vicende vanno di pari passo, benché lontane nel tempo. Perché rimandano allo spirito della Transizione democratica e della Costituzione del 1978, non a caso detta de la Concordia, e a quel che resta di quello spirito in una nazione sempre più divisa. In questo contesto, è diventato quasi un ritornello buffo il termine Francomodín, neologismo inventato in chissà quale redazione di giornale per mettere insieme il cognome di Franco con il termine “comodino” che è un mobile alla portata di tutti, fatto apposta per sbarazzarsi le tasche, per contenere oggetti che vanno nascosti alla vista, per servire come supporto al letto e alle sue funzioni. Un mobile da usare come si vuole.
Ma che significa un comodino chiamato Franco nella Spagna del post-franchismo, della post-transizione, della post-democrazia? In un paese in cui, come in tutto l’occidente, il vero potere è in mano a lobby elitarie che, attraverso i mass media, riescono a influenzare il discorso pubblico e, soprattutto, il marketing politico. In una Spagna in cui cinquant’anni di democrazia hanno spazzato via la toponomastica riguardo al Caudillo e ai suoi adepti. Una rimozione dopo l’altra, l’èra di Franco è sparita da tutte le strade e da tutte le piazze del paese. A Madrid sopravvive, forse unico resto marmoreo tra quelli apposti dal regime franchista, una targa nella calle Claudio Coello, nel punto in cui saltò in aria nel 1973, in un attentato dinamitardo dell’Eta, l’ammiraglio Carrero Blanco, all’epoca delfino di Franco. Ma se chiedete indicazioni per trovare la lapide in questa strada lunga ed elegante, ormai famosa per lo shopping di lusso, quasi nessuno sa rispondere. Provare per credere.
Ci sono volute due leggi per rendere giustizia alle vittime della Guerra civile – vinta nel 1939 dai nazionalisti insorti contro il governo della Seconda Repubblica – e a quelle della repressione franchista che fu feroce, soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta. Con migliaia di desaparecidos, oppositori prelevati da casa o per strada, anche solo per un sospetto, fucilati e sepolti in fosse comuni, “grandi cimiteri sotto la luna” ai bordi delle strade di Spagna. La Ley de Memoria Histórica del 2007, voluta dal governo socialista di José Luis Zapatero, voleva riconciliare lo stato con la Spagna degli sconfitti. La Ley de Memoria Democrática in vigore dal 2022, sotto il primo ministro Pedro Sánchez, ha ampliato e sostituito la precedente legge. Da allora lo stato si fa carico direttamente di tutto ciò che riguarda il recupero della memoria, compresa “l’archeologia del dolore”, cioè gli scavi nelle fosse comuni e la difficile identificazione delle vittime. Inoltre, il regime originato dal colpo di stato del 1936 è stato dichiarato “illegittimo e illegale”. Con tutte le conseguenze del caso. Dalle sentenze politiche dei tribunali franchisti dichiarate nulle, all’azzeramento del punto di vista “storico” di una parte, non secondaria, del paese. Una sorta di damnatio memoriae, di continuo contraddetta.
Ora Sánchez ha annunciato che, prima della fine di novembre 2025, sarà pubblicato sul Boletín Oficial del Estado (la gazzetta ufficiale della Spagna) un “catalogo definitivo di toponimi e simboli franchisti” da ritirare, anche se di proprietà privata. La Fondazione Franco, un’associazione privata che si occupa, tra l’altro, della conservazione dell’archivio personale del Caudillo, ha già ricevuto un preavviso di chiusura.
In giro per la Spagna, non resta più nulla neppure dei monumenti equestri che mostravano le fattezze del Generalissimo Franco, per molti anni oggetto di curiosità e di relative foto da parte dei turisti. Il dettaglio non secondario è che la posa da condottiero ingigantiva l’uomo, in realtà alto 163 centimetri. A dimostrazione che la democrazia serve sempre e comunque a migliorare la statura del paese: 197 centimetri il re Felipe VI, 190 il primo ministro Pedro Sánchez.
La bellezza e l’altezza sembrano essere un’ossessione per Sánchez, un tempo giocatore di pallacanestro. Quando diventò per la prima volta presidente del governo, nel giugno 2018, i giornali anglosassoni lo soprannominarono Mr. Handsome, cioè “signor bello”. Sembra che a Sánchez piacesse tanto il nomignolo inglese da incoraggiare alcuni profili social con decine di migliaia di follower e contenuti favorevoli alla sua immagine, fino ad ammiccare alla definizione di sex symbol. Con un profilo, chiamato appunto Mr. Handsome, non è andata bene. L’anno scorso a marzo, i giornalisti del quotidiano El Mundo hanno scoperto che, dietro l’account anonimo che gestiva il profilo si nascondeva, com’era scontato, un’ammiratrice. La quale, però, lavorava negli uffici del Partito socialista, il partito del presidente, e per tessere le lodi del Señor Guapo veniva retribuita con uno stipendio di 47 mila euro dal Congreso de los Diputados, cioè da tutti gli spagnoli. Sembra che non fosse l’unica persona in calle Ferraz, nella sede madrilena del Psoe, a industriarsi per il premier con retribuzioni a carico dei contribuenti. Finì che Pedro Almodóvar inscenò una gag memorabile e, forse, inconsapevole al Festival del cinema di San Sebastián nel settembre 2024. Il più celebre regista spagnolo contemporaneo, nel ringraziare Sánchez per l’appoggio dato alla cultura, ebbe a dire: “Ci sarebbero molte cose da chiedere a Mr. Handsome, a livello fisico e politico”.
Vanità a parte, si ricomincia dal ritornello Francomodín, metafora della Spagna attuale e dei suoi contrasti. Col comodino di nome Franco messo in mezzo per sviare l’attenzione dalle difficoltà di un governo senza maggioranza parlamentare, col solo puntello di partiti indipendentisti che non si riconoscono nell’unità del paese di cui è garante la monarchia. Di un governo che non approva il bilancio dello stato da tre anni. Di un premier accerchiato dalla corruzione, da accuse gravi che riguardano la sua famiglia, la moglie e il fratello. Senza contare il capitolo, lungo, delle promesse mancate. Con l’aggravante che Sánchez presiede il governo, di dritto o di rovescio, da sette anni. Ininterrottamente. La macroeconomia in Spagna va bene, soprattutto nel confronto con altri paesi europei, Italia inclusa. Ma è un fatto, per esempio, che la vivienda, cioè l’accesso alla casa, abbia raggiunto costi proibitivi, e che l’edilizia popolare promessa non sia stata realizzata. L’occupazione giovanile è rimasta ancorata a contratti temporanei, part-time o poco qualificati, secondo dati Ocse. Un terzo della popolazione è a rischio povertà, avverte l’Instituto Nacional de Estadística.
Sono questi i dati che preoccupano la calle. Che preoccupano i giovani. I quali, come in tutto l’occidente, non conoscono la storia recente. Ignorano chi sia stato davvero il Caudillo, la sua ferocia nei confronti degli oppositori. Come abbia vinto la Guerra civile partendo dall’Africa al comando delle guarnigioni spagnole in Marocco. Come abbia governato con pugno di ferro la nazione per quasi quarant’anni, accentrando di fatto su di sé tutti i poteri dello stato. Se parli con loro dell’èra di Franco, si stupiscono che sia morto così vecchio e nel suo letto. Per loro si tratta di un passato remoto. Talvolta del franchismo conservano una vaga memoria familiare, sempre più frammentaria, man mano che passano gli anni. A loro interessa il presente, un lavoro stabile, una casa in cui abitare, il costo della vita. Non il fantasma di Franco, ormai morto e sepolto. Anzi, riesumato nel 2019 dalla cripta monumentale e autocelebrativa scavata nella roccia del complesso del Valle de los Caídos e trasferito in un piccolo cimitero a nord di Madrid, accanto alla moglie. Ovviamente ha cambiato nome anche il Valle de los Caídos, uno dei monumenti più controversi del franchismo (e anche più brutti, a vederlo). Ora si chiama “Valle de Cuelgamuros”, in omaggio alla nuova toponomastica.
Sì, è vero, non si è mai parlato tanto di franchismo come in questo cinquantenario. Perché agitare Franco come una muleta davanti al toro serve a polarizzare l’opinione pubblica (il vecchio espediente del divide et impera, sempre efficace); a negare la stessa ragion d’essere della rapida Transizione democratica condotta dal re Juan Carlos appena dopo la morte di Franco nel 1975 con la collaborazione di tutte le forze politiche dell’arco parlamentare; a negare “lo spirito del consenso” alla base della Costituzione del 1978, il cui testo fu redatto da una commissione in cui erano presenti tutte le forze politiche dell’arco parlamentare e fu sottoposto all’approvazione dei cittadini mediante referendum. Certo, ci furono ambiguità, eccome, nel Pacto del Olvido, l’accordo non scritto con cui si decise di dimenticare il passato per concentrarsi sul futuro del paese. Di costruire una democrazia che includesse tutti.
L’oblio non è mai una storia semplice. Né tanto meno casuale. Risiede nella coscienza individuale e collettiva. E’ specchio di memorie contese e di disincanti politici. Maggiormente in Spagna, proprio per gli accadimenti del Novecento, per la tragica frattura della guerra fratricida. Quando il 20 novembre 1975 Franco murió en su cama, si spense nel suo letto, sconfitto solo dalla vecchiaia e da un accanimento medico prolungato oltre la decenza terapeutica, nessuno dei suoi oppositori, tutti illegittimi, durmió en su cama. Nessuno allora poteva prevedere cosa sarebbe successo. Furono giorni di incertezze, di paure, di speranze.
Che piaccia o no, fu il re Juan Carlos I di Borbone a traghettare il paese. “La democrazia non cadde dal cielo”, afferma nell’autobiografia Reconciliación a lungo annunciata e appena pubblicata in Francia. Oltre cinquecento pagine scritte in prima persona e in francese, con l’aiuto della saggista e giornalista Laurence Debray. E’ evidente che el emérito, come lo chiamano in Spagna, dopo l’abdicazione in favore del Figlio Felipe VI nel 2014, con questo libro abbia voluto rivendicare la sua storia, il ruolo di protagonista nel passaggio della Spagna, in soli tre anni, dalla dittatura alla monarchia costituzionale. Con le amnistie concesse nel ‘76 e ‘77 erga omnes. Con il riconoscimento dei partiti, tutti clandestini. Soprattutto con il dialogo con i comunisti di Santiago Carrillo, considerata dagli storici come una tappa fondamentale nel processo di democratizzazione. “Non c’è democrazia senza riconciliazione. La nostra fu frutto del dialogo tra nemici storici”.
Fu vera gloria? Nella confessione in pubblico dell’emérito, “come mai un re dovrebbe fare”, c’è la voglia di ripianare col ricordo dell’azione politica svolta in favore di una democrazia condivisa, il carico di scandali finanziari, fiscali e perfino personali che lo hanno costretto all’esilio volontario dalle parti di Abu Dhabi, nel lusso di un’isoletta nel Golfo Persico. C’è, comunque, un’assunzione di responsabilità desueta, distante dalla politica-immagine ormai in voga in tutto l’occidente. Un senso del proprio ruolo pubblico che rese Juan Carlos I celeberrimo quando riuscì a bloccare – ed era l’unico che poteva farlo – il tentativo di golpe del 23 febbraio 1981. Con le Cortes già prese in ostaggio dal tenente colonnello della Guardia Civil Antonio Tejero. E i carri armati dell’esercito già per strada a Valencia. Nell’autobiografia Juan Carlos racconta la “sua” versione degli eventi e specifica che “ci furono tre tradimenti, non uno solo”.
Juan Carlos I è consapevole che il libro attirerà su di lui ulteriori polemiche. Soprattutto per il modo “rispettoso” in cui si sofferma sul suo rapporto con il Caudillo, il quale lo chiamò a sé quando era bambino per educarlo personalmente. Fu Franco, poi, nel 1969 a indicarlo come “successore col titolo di re”, preferendolo al padre Don Juan di Borbone, erede legittimo della monarchia esiliata. L’autobiografia sarà pubblicata in Spagna solo a dicembre. Il che, certo, sollecita una domanda, al momento senza risposta. Perché el emérito ha scelto la Francia per pubblicare un testo indirizzato agli spagnoli? C’è, comunque, qualcosa di shakespeariano nella confessione di Juan Carlos. Come se un vecchio Falstaff debordante, giunto alla fine della vita, esprimesse il dolore del ripudio sapendo di non avere più nulla da perdere. Forse è per questo che il re emerito lancia il suo monito: “I nostri demoni sono tornati”. Chissà se sortirà effetto.