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Il vincente codice Reagan che ha mostrato al mondo come si tratta con Mosca

Marco Bardazzi

Quarant’anni fa, a Ginevra, l'allora presidente americano e Michail Gorbaciov si strinsero la mano a Villa Fleur d’Eau. Dietro il gelo svizzero, cominciava il disgelo della Guerra fredda. Una lezione di leadership ancora attuale

La gigantesca Zil blindata con la bandiera dell’Unione sovietica si fermò davanti alla scalinata di Villa Fleur d’Efau, in mezzo alle aiuole di ciclamini e vicino alla balaustra della terrazza panoramica affacciata sul lago di Ginevra. Prima che si aprissero le porte della limousine nera, dalle grandi porte a vetri della villa uscì il settantaquattrenne Ronald Reagan in un elegante abito blu scuro, la folta chioma scura al vento, senza cappotto nonostante la mattina gelida del novembre svizzero. Un attimo dopo dalla Zil scese il segretario generale del Pcus Michail Gorbaciov, vent’anni più giovane del presidente americano, avvolto in un pesante cappotto, con la sciarpa al collo e in mano un cappello di caldo feltro di lana. Poco prima di uscire dalla villa, Reagan d’istinto aveva deciso di rinunciare a proteggersi dal freddo per presentarsi come se la temperatura invernale non lo riguardasse. Una mossa da navigata star hollywoodiana. Gorbaciov si avvicinò mentre Reagan sorridente gli tendeva la mano e capì di aver già perso il primo round. Tenne il cappello in mano senza indossarlo, lasciando scoperta l’ampia calvizie, strinse la mano del presidente di fronte alle telecamere di tutto il mondo, ma non riuscì a evitare di apparire fin dal primo istante goffo e freddoloso, di fronte all’anziano leader dal sorriso californiano che sembrava il ritratto della salute. 

 

Reagan rinunciò a proteggersi dal freddo, come se la temperatura invernale non lo riguardasse. Una mossa da navigata star hollywoodiana

 

Quarant’anni fa, il 19 novembre 1985, fu questa la prima immagine globale di un vertice destinato a passare alla storia ed è rimasta la foto emblematica di un momento che ha segnato il destino della Guerra fredda e, in qualche modo, continua a far sentire la propria eco anche a distanza di quattro decenni. In un mondo in cui i leader di Washington e Mosca oggi si chiamano Donald Trump e Vladimir Putin e si torna a discutere di armi nucleari e del futuro dell’Europa e della Nato, i gesti e le scelte di quel primo incontro tra due giganti degli anni Ottanta hanno una grande attualità. Perché il vertice di Ginevra e tutto ciò che ne seguì fino alla caduta del Muro di Berlino e al dissolvimento dell’Unione Sovietica raccontano, tra le altre cose, quale sia la strada migliore che l’occidente può percorrere per ottenere qualcosa dalla Russia: partire da una posizione di forza e da un chiaro convincimento su quali siano i risultati da raggiungere e gli ideali su cui costruire il percorso. 

 

Quel giorno del 1985 Ronald Reagan sapeva dove voleva arrivare, era certo della superiorità delle democrazie rispetto all’ideologia comunista ed era in buona compagnia: i suoi alleati dell’epoca, a diverso titolo, erano personaggi come Margaret Thatcher, Helmut Kohl, Lech Walesa, Vaclav Havel e Giovanni Paolo II. Anche in Cina c’era un leader, Deng Xiaoping, che sapeva verso quale traguardo voleva traghettare il proprio paese con le riforme economiche. Gorbaciov invece, come sostiene il grande storico della Guerra fredda John Lewis Gaddis, “sapeva che l’Unione Sovietica non poteva continuare sulla propria strada, ma a differenza di Reagan e degli altri protagonisti di quel momento non sapeva quale dovesse essere il percorso giusto da intraprendere”. E questo, nel giro di pochi anni, fu fatale alla sua carriera e al destino dell’Urss.

 

 

Eppure in quel gelido mattino di quarant’anni fa a Villa Fleur d’Eau la narrazione prevalente sulla stampa occidentale era ancora quella di un Reagan “attore prestato alla politica” e “guerrafondaio” che non sarebbe stato all’altezza del giovane e scaltro capo del partito comunista sovietico. Nonostante avesse ormai cominciato il secondo mandato, il presidente americano continuava ad essere sottovalutato. Solo a distanza di decenni è invece evidente quanto le scelte e la strategia che lo portarono a Ginevra e ai vertici successivi con Gorbaciov siano stati il frutto di una visione da statista e da brillante tessitore di rapporti internazionali, basati sul convincimento della supremazia delle democrazie. Trump ama paragonarsi a Reagan e alla sua abilità di trattare direttamente a quattr’occhi con gli altri leader mondiali. Ma i bilaterali di Reagan partivano sempre da un rapporto con gli alleati e facevano del multilateralismo il loro punto di forza, mentre Trump crede solo nelle proprie capacità, non ascolta nessuno e apprezza i faccia a faccia con interlocutori autoritari, come Putin o Xi Jinping, riuscendo però alla fine a farli apparire più forti di quanto non siano davvero. 

 

Trump ama paragonarsi a Reagan, che però faceva del multilateralismo il suo punto di forza. Trump, invece, crede solo nelle proprie capacità

 

Era dal 1979 che i leader di Stati Uniti e Unione sovietica non si incontravano. L’ultima volta era stata a Vienna, quando il presidente Jimmy Carter e il segretario generale Leonid Brezhnev avevano firmato l’accordo Strategic Arms Limitation Treaty II (Salt II). Carter aveva provato a prendere i sovietici con le buone, parlando di sogni e speranze di pace comuni. Il risultato si era visto sei mesi dopo la firma e le strette di mano a Vienna: l’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan e il trattato fu bloccato e archiviato. Reagan, non appena insediato alla Casa Bianca nel gennaio 1981 dopo aver sconfitto Carter, scelse una strada diversa. La sua fu sostanzialmente una gigantesca campagna di comunicazione, fece di tutto per far sapere che l’America intendeva riarmarsi e nello stesso tempo sfidava la leadership sovietica a venire al tavolo della trattativa per parlare non più e non solo di controllo delle armi nucleari, ma della loro riduzione. Il problema è che a Mosca i capi continuavano a essere vecchi arnesi del partito eletti in età avanzata e in precarie condizioni di salute. Uno dopo l’altro, nei primi anni di presidenza Reagan vide alternarsi Brezhnev, Andropov e Chernenko e nessuno sopravviveva abbastanza per organizzare un vertice. “Come faccio a dialogare con loro se continuano a morirmi tutti?”, si lamentava Reagan, tra il serio e lo scherzoso. 

 

 

Nel frattempo la situazione della sfida nucleare peggiorava. Nel 1983 i sovietici dispiegarono i loro missili SS-20 nei paesi del Patto di Varsavia, direttamente puntati sulle capitali occidentali. Reagan alzò la voce, dichiarò chiuso il dialogo sul disarmo nucleare e schierò i missili Pershing II nei paesi della Nato. Il movimento pacifista invase le strade e le piazze in Europa e negli Stati Uniti contro il presidente “guerrafondaio”, ma quello fu il primo di due passi decisivi con i quali Reagan costrinse i sovietici a tornare al tavolo delle trattative e aprì la strada verso Ginevra. La seconda mossa fu l’annuncio con un discorso in tv, il 23 marzo 1983, della Strategic Defense Initiative (Sdi), lo scudo difensivo contro i missili balistici che gli avversari di Reagan derisero subito come “guerre stellari”, evocando la saga di George Lucas che in quegli anni imperversava nei cinema. 

 

Reagan sapeva che l’economia sovietica era vicina al collasso e giocava la carta di una corsa agli armamenti fin nello spazio che Mosca non si poteva permettere, nonostante il riarmo di quegli anni. Tra le altre cose l’Armata Rossa stava sprecando uomini e risorse – allora come oggi – in un paese invaso, l’Afghanistan, che non voleva saperne di arrendersi, grazie anche agli aiuti americani e ai missili Stinger terra-aria che la Cia distribuiva ai mujaheddin. Il presidente americano con lo Sdi giocava una partita a poker, sapendo che probabilmente non avrebbe davvero realizzato lo scudo spaziale – che infatti non vide mai la luce – ma facendo di tutto per far credere a Mosca di essere pronto a crearlo, con un immediato vantaggio: d’un tratto sarebbe finito l’equilibrio della dottrina Mad (Mutual assured destruction) che rendeva la Guerra fredda in realtà un conflitto congelato. Mancava solo il giocatore che accettasse di sedere al tavolo del poker. Arrivò nel marzo 1985, con la morte di Chernenko e l’ascesa al potere di un volto nuovo e giovane, quello del cinquantenne Michail Gorbaciov. 

 

Con lo scudo spaziale Reagan giocava una partita a poker. Mancava il giocatore, che arrivò nel marzo ’85 col volto giovane di Michail Gorbaciov

 

L’apertura degli archivi sovietici dopo la caduta dell’Urss e gli studi di Gaddis e degli altri storici della Guerra fredda ci hanno svelato quanto Mosca fosse preoccupata dallo Sdi e in difficoltà a tenere il passo degli americani, con l’economia in crisi e l’Afghanistan come spina nel fianco. “Non si può continuare così”, Gorbaciov raccontò di aver detto alla moglie Raissa la notte prima che il Politburo lo nominasse. Il nuovo leader era disposto a cercare altre strade e a concedere il dialogo al presidente americano, ma non aveva un piano preciso su come salvare il regime sovietico. 

 

 

Alla fine, accettando il confronto con l’occidente nello stesso momento in cui la Polonia di Walesa gli sfuggiva di mano e gli altri paesi sovietici mugugnavano, Gorbaciov segnò il destino dell’Unione sovietica. E tutto si mise in moto in quel gelido martedì di novembre di quarant’anni fa nella villa sul lago di Ginevra. Nei dialoghi faccia a faccia con Reagan, su cui nel corso degli anni si sono scoperti sempre più dettagli, Gorbaciov fu durissimo e intransigente sullo Sdi, la sua vera ossessione, nonostante l’offerta di Reagan di metterlo a disposizione anche dell’Urss per mettere fine insieme al pericolo nucleare. “Dissi a Gorbaciov: ‘Chi ci dice che un giorno non arrivi un altro Hitler? Dobbiamo avere una difesa comune contro i pazzi che potrebbero usare le armi nucleari’”, raccontò anni dopo Reagan all’amico giornalista William F. Buckley, rievocando i giorni di Ginevra. La due giorni sul lago svizzero fu costruita con grande cura da Reagan e dal suo team, che nelle settimane prima del vertice erano completamente assorbiti dai preparativi per l’incontro con Gorbaciov, come testimoniano i diari dell’allora presidente americano. Erano anche i giorni del “caso Sigonella”, su cui in Italia si costruì una mitologia basata sull’orgoglio nazionale per aver difeso l’onore del paese durante il confronto tra militari americani e italiani nella base in Sicilia. Di tutta questa mitologia c’è però scarsa traccia nei diari di Reagan, che dedica poche righe ai suoi confronti con l’allora premier Bettino Craxi e ritiene chiusa la vicenda con una stretta di mano giorni dopo all’Onu. Sigonella era una distrazione secondaria: tutta l’attenzione degli americani era per Ginevra. 

 

Alla fine dagli incontri di fronte ai vari caminetti di Villa Fleur d’Eau non uscì un accordo ufficiale, solo un impegno a rivedersi e proseguire il dialogo. Ma il meccanismo era in movimento e due mesi dopo Gorbaciov tirò fuori la proposta ufficiale di un completo disarmo nucleare entro l’anno 2000. Gli eventi intanto continuarono a mettere sotto pressione il segretario generale, non solo in Afghanistan ma anche con il disastro nucleare di Chernobyl dell’aprile 1986, che aggravò la preoccupazione del leader sovietico sullo stato delle infrastrutture del paese. Le parole “glasnost” (trasparenza) e “perestroika” (ricostruzione) cominciarono a far capolino nei discorsi di Gorbaciov, che si fece promotore di un secondo vertice con Reagan a Reykjavik, in Islanda, nell’ottobre 1986. Qui il leader sovietico fece balenare la possibilità di un disarmo progressivo e completo, l’offerta di ispezioni ai siti nucleari russi, il ritiro di tutti gli SS-20 dall’Europa. Reagan era al settimo cielo, si immaginava un vero cambiamento d’epoca, ma fu gelato da una frase pronunciata da Gorbaciov in modo quasi casuale alla fine dei colloqui: “Ovviamente c’è una postilla, un’unica condizione: dovete cancellare completamente il programma Sdi”. Reagan andò su tutto le furie e abbandonò il vertice con un nulla di fatto. Oltre a essere due leader, erano due attori, e c’era molta recitazione in questi scambi e sfuriate. Ma Reagan era ovviamente più preparato come attore e sapeva di dover continuare a restare in una posizione di forza per convincere Mosca. Lo Sdi accelerò e nel giugno 1987 il presidente americano portò la propria recitazione a due passi dalla cortina di ferro, con il sensazionale discorso di fronte al Muro di Berlino e quelle parole pronunciate andando contro le indicazioni del dipartimento di stato: “Mr. Gorbaciov, abbatta questo muro!”. 

 

Oltre a essere due leader, erano due attori, e c’era molta recitazione nei loro scambi e sfuriate. Ma uno dei due era più preparato

 

Pochi mesi dopo i due leader erano di nuovo insieme, a Washington, a parlare seriamente di disarmo nucleare. Il Muro, Gorbaciov e l’Unione Sovietica avevano ormai gli anni contati. La partita a poker cominciata a Ginevra era giunta al termine ed era chiaro che le minacce sovietiche erano un bluff, forse analogo ai bluff del Cremlino di oggi. Ma, a differenza di allora, il giocatore più forte ed esperto stavolta siede a Mosca.

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