il colloquio

La Cina voleva fermare i suoi studi sugli uiguri. Parla la prof. Murphy

Giulia Pompili

“C’è una ragione per cui la Cina non vuole che parliamo di questo argomento”, dice al Foglio la docente specializzata nella documentazione del lavoro forzato nello Xinjiang. La sua università, la Sheffield Hallam, stava per cedere alle minacce di ritorsione da parte di Pechino

Professoressa di diritti umani e schiavitù contemporanea alla Sheffield Hallam University, in Inghilterra, Laura Murphy è tra le studiose che hanno documentato il lavoro forzato imposto alla popolazione uigura nello Xinjiang, e le sue ricerche sono considerate un punto di riferimento sul tema. Due giorni fa però, Bbc e Guardian hanno rivelato una campagna fatta di intimidazioni e minacce contro l’ateneo inglese per silenziare gli studi di Murphy. Nel 2024 l’allora segretario agli Esteri David Lammy aveva sollevato il problema della libertà accademica anche con funzionari della leadership cinese, ma le minacce non erano finite, e a gennaio l’università aveva comunicato a Murphy che non poteva “continuare le sue ricerche sulle catene di approvvigionamento e sul lavoro forzato in Cina”. La docente aveva fatto causa – poi ritirata, dopo le scuse pubbliche dell’università e la rivelazione di una storia che dice molto del metodo cinese in occidente. “E’ difficile perché è diventata una storia ‘su di me’. Ma non mi piace quella parte”, dice in una conversazione con il Foglio la professoressa Murphy. “Ma anche mettendo da parte il disagio personale, il punto è che c’è una ragione per cui la Cina non vuole che parliamo di questo: è l’enorme sofferenza del popolo uiguro”.

 

 

Il tema delle violazioni dei diritti umani nella Repubblica popolare cinese, e tra queste violazioni lo sfruttamento del lavoro forzato, soprattutto nella regione dello Xinjiang, riemerge periodicamente: “Credo che nel mondo oggi ci siano molti crimini terribili contro l’umanità, ma quello compiuto dalla Cina è sicuramente tra i peggiori. Non voglio trasformarla in una specie di Olimpiade del male, ma possiamo dire con certezza che il sistema di lavoro forzato imposto dallo stato in Cina è senza precedenti per ampiezza e scala. Quello che accade agli uiguri è inaccettabile, e le persone in tutto il mondo dovrebbero prestare molta attenzione”. Purtroppo, però, dice Murphy, “le aziende cinesi sono così integrate nelle nostre filiere globali che molti hanno paura di criticare queste violazioni. E così la crisi che ha colpito il popolo uiguro viene spesso nascosta, perché è economicamente scomoda per troppi”. Eppure sono sempre meno le università e gli atenei che ospitano studi scientifici come quelli di Laura Murphy, anche a causa di legami economici diretti con Pechino che spesso creano una specie di autocensura relativa ad argomenti sensibili. “Le università di tutto il mondo dovrebbero investire di più nella produzione di conoscenza sull’autoritarismo e sulle violazioni dei diritti umani”, dice la docente. “Anche se è scomodo, gli accademici  aiutano il mondo a capire cosa sta succedendo e a difendersi dalle forme di oppressione. Le università sono in prima linea nel lavoro più importante sui diritti umani, e i governi dovrebbero proteggerle e sostenerle, proprio perché producono conoscenza”. Quando vengono pubblicati studi sulla questione delle violazioni dei diritti umani – di cui Pechino ha un’idea tutta sua legata alla “maggioranza”, e non alle minoranze – spesso la propaganda si concentra o sullo screditare la ricerca oppure accusando gli autori di non “conoscere la Cina”. Murphy chiarisce di aver trascorso molto tempo nello Xinjiang: “Certo, non ci torno da molto tempo, anche perché sarebbe un rischio troppo alto per me e per le persone che vivono lì, se io andassi a visitarli”.

 

E’ per questo che non possiamo avere testimoni diretti indipendenti, “e abbiamo così poco giornalismo da quella regione: è davvero pericoloso andarci”. La ricerca però si può fare lo stesso, con metodo: “Riusciamo a individuare le aziende coinvolte nel lavoro forzato semplicemente perché lo celebrano. Da ormai quasi dieci anni, è considerato un atto di grande patriottismo per un’azienda aderire alle direttive del governo cinese e usare i ‘trasferimenti di manodopera’ imposti dallo stato per reclutare lavoratori dalla regione uigura”. Di fatto, si analizzano le loro dichiarazioni ufficiali, “a volte nei rapporti di responsabilità sociale parlano apertamente di questi programmi, rilasciano interviste ai media, si vantano della loro partecipazione. Lo fanno perché in buona parte della Cina esiste un razzismo diffuso e un atteggiamento paternalista verso gli uiguri. Questo spinge le aziende a sentirsi parte di un apparato statale che, ufficialmente, ‘aiuta’ il popolo uiguro, ma in realtà gli nega il diritto di scegliere o rifiutare un impiego”. La docente dice al Foglio che negli ultimi anni, dopo la pubblicazione dei suoi studi sul lavoro forzato nel settore della produzione tessile e dei pannelli solari, molti governi anche europei sono stati molto aperti all’ascolto: “Un anno e mezzo fa sono stata anche in Italia, ho incontrato funzionari, parlamentari, sindacalisti e organizzazioni della società civile. Tutti sono molto preoccupati, non solo per la questione dei diritti umani, ma anche per la concorrenza sleale che colpisce l’economia italiana. Credo che ci siano molte più persone di quanto pensiamo che prendono sul serio la questione e cercano di agire”. Eppure tutti – “Italia compresa”, secondo la docente dovrebbero lavorare di più per applicare la nuova normativa sul lavoro forzato dell’Ue, “perché tonnellate di merci prodotte con lavoro forzato continuano a entrare nei nostri paesi. I consumatori si aspettano che siano i governi a proteggerli, non che debbano verificare da soli la provenienza di ogni singolo prodotto. Quindi sì, qualcosa si muove, ma serve accelerare e garantire che la legge venga davvero applicata”.
 

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.