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L'editoriale del direttore

Diffidare della sinistra modello Mamdani

Claudio Cerasa

Odio per la globalizzazione. Istinti anti sistema. Diffidenza verso l’America esportatrice di libertà e pilastro dell’occidente. Più che un’alternativa al trumpismo, il nuovo sindaco di New York è il suo perfetto specchio a sinistra

William Michael Daley è un noto politico americano. Ha ricoperto la carica di capo di gabinetto della Casa Bianca da gennaio 2011 a gennaio 2012, ai tempi della presidenza di Barack Obama. E’ stato scelto da Bill Clinton, tra il 1997 e il 2000, come segretario al Commercio. E’ stato candidato a governatore dell’Illinois nel 2014. Si è candidato a sindaco di Chicago del 2019. E’ un democratico, detesta Donald Trump, detesta i populisti, e qualche giorno dopo la vittoria alle primarie democratiche di Zohran Mamdani, da ieri nuovo sindaco di New York, sulle colonne del Wall Street Journal, giornale poco tenero con i populismi di destra e poco tenero con i populismi di sinistra, giornale che nell’ultimo mese ha fatto una ferocissima campagna contro Mamdani, ha offerto uno spunto di riflessione interessante, che vale la pena affrontare nelle ore in cui alcuni leader della sinistra mondiale, a partire da quella italiana, hanno scelto di trasformare il modello Mamdani in un simbolo da adottare per costruire vittorie future anche fuori dai confini della Grande Mela.

 

Mamdani, dice William Michael Daley, è “estremo quanto Trump”, e le ragioni del suo estremismo sono da ricercare non solo nella sua campagna elettorale ma anche in una vecchia affiliazione di Mamdani. Il nuovo sindaco di New York, come è noto, è un orgoglioso membro dei Socialisti democratici d’America, la famosa Dsa, e la piattaforma ufficiale della Dsa presenta una serie di elementi che a prima vista dovrebbero risultare inquietanti per chiunque sia alla ricerca di una risposta non populista al populismo trumpiano. La Dsa mira a “definanziare la polizia”, sogna “la nazionalizzazione di aziende come ferrovie, servizi pubblici e aziende manifatturiere e tecnologiche essenziali”, sostiene la necessità di ridurre “drasticamente la spesa militare statunitense”, promuove “la chiusura di tutte le basi militari statunitensi all’estero”, non contrasta chi sostiene la necessità di “ritirarsi immediatamente dalla Nato”.

 

Nel corso della campagna elettorale, l’osannato nuovo sindaco di New York, in verità, ha detto di essersi pentito di alcune delle teorie sostenute pochi anni prima come membro della Dsa, in primis il definanziamento della polizia, e nonostante il suo scarso amore nei confronti di Israele ha accettato, bontà sua, di considerare un pericolo per il mondo libero la “globalizzazione dell’Intifada”, anche per rispondere alle critiche numerose di chi ha sostenuto in queste settimane, come fatto da Bernard-Henri Lévy il 29 ottobre ancora sul Wsj, “la vittoria di Zohran Mamdani come un pericolo per gli ebrei che incoraggerebbe i totalitaristi in tutto il mondo”. Ma William Michael Daley ha comunque centrato un punto che riguarda un aspetto che difficilmente verrà notato sia dai follower di Trump sia dai follower di Mamdani: la sovrapponibilità delle proprie piattaforme politiche, dei propri istinti antisistema, delle proprie agende programmatiche, delle proprie visioni del mondo.

 

Non su tutto, naturalmente, ma su alcuni punti, come capita spesso quando si hanno di fronte estremismi di vario conio, le retoriche di Trump e di Mamdani si intersecano in modo perfetto. Entrambi fanno leva sulla logica della contrapposizione netta tra “un’élite ristretta” e “il popolo”. Entrambi tendono a trasformare la politica in una questione di purezza e di tradimento, di una lotta dei “buoni” contro i “corrotti”. Entrambi giocano con la retorica del vittimismo, il primo, Trump, lo fa come simbolo del maschio bianco umiliato da élite liberali, media progressisti e minoranze “protette”, il secondo lo fa come simbolo della testimonianza di un figlio del Sud globale, testimone di un mondo ancora governato da un imperialismo mascherato da ordine liberale. Entrambi, inevitabilmente, sognano un’America che si ritira dal mondo. Trump perché, in nome dell’“America first”, i soldi degli americani non devono più servire a mantenere basi militari o alleanze che non portano nulla alla ricchezza americana. Mamdani perché considera la presenza americana nel mondo come l’estensione moderna del colonialismo economico e militare. Entrambi, inevitabilmente, individuano come nemico del popolo non solo le élite, di cui entrambi fanno parte, ma la globalizzazione imperante, che va demolita, destrutturata, limitata. Per Trump, lo sappiamo, la globalizzazione è stata una rapina ai danni del lavoratore americano, un patto ingiusto che ha svuotato le fabbriche e arricchito la Cina. Per Mamdani, lo scopriremo, la globalizzazione è l’arma ideologica del capitalismo globale, che ha alimentato sotto altra forma il dominio coloniale sui paesi più deboli. Entrambi, Trump e Mamdani, lo fanno partendo da una posizione in fondo simmetrica.

 

Entrambi sono figli di New York, ovvero il luogo che più di ogni altro al mondo incarna il sogno americano, l’occidente libero, la globalizzazione, il mercato globale, ed entrambi cercano di cancellare il peccato della propria appartenenza, del proprio essere borghesi, combattendo tutto ciò che gli ha permesso di arrivare dove si trovano oggi. A Trump, un profilo anti sistema come quello di Mamdani fa comodo, e viceversa, perché il populismo di destra e il radicalismo di sinistra, pur condividendo molti punti in comune, sono carburanti vitali nei due serbatoi dell’estremismo: si alimentano l’uno delle demagogie dell’altro, si tengono insieme, vanno a braccetto. Ma prima di considerare il modello Mamdani, come sembra voler fare la sinistra italiana, un modello da cui partire (“Una bella notizia da New York. Vince una speranza. Nella Grande Mela hanno capito che i nemici dei poveri e dei lavoratori non sono gli immigrati ma i miliardari”, ha scritto ieri Andrea Orlando, volto importante del Pd), forse varrebbe la pena spendere qualche secondo su altre due vittorie dei democratici di cui si parlerà poco.

 

Due vittorie avvenute martedì sera, alle elezioni governative in Virginia e New Jersey: due stati governati da repubblicani fino a lunedì, tornati ai democratici grazie a due candidati moderati e pragmatici alternativi al modello Mamdani. La storia di New York in fondo è lo specchio perfetto del bivio che hanno preso da tempo i progressisti di tutto il mondo: costruire un argine alle destre con un’alternativa ai propri avversari o con una caricatura dei propri nemici.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.