Foto LaPresse
alleati pericolosi
Cosa c'è dietro al silenzio sul ruolo degli Emirati Arabi Uniti in Sudan
Sponsor della guerra in Darfur ma anche interlocutori fondamentali (a partire da Gaza). Perché Trump, l’Ue e l’Italia parlano poco di Dubai. Il peso politico, il soft power e le armi a Hemedti
Tra i rappresentanti della diplomazia del mondo arabo riuniti una settimana fa per i Manama Dialogues in Bahrein deve essere scappato qualche sorriso sarcastico quando Anwar Gargash, consigliere diplomatico della famiglia reale emiratina, a un certo punto ha detto di avere commesso “un errore cruciale” in Sudan. “Abbiamo sbagliato quando due generali che oggi stanno combattendo una guerra civile hanno sollevato il governo con un golpe. Avremmo dovuto piantare bene i piedi per terra, collettivamente”. Ma mentre Gargash versava lacrime di coccodrillo, nello stesso preciso momento i voli cargo emiratini carichi di armi dirette alle Rapid Support Forces (Rsf) sudanesi continuavano a decollare da Abu Dhabi diretti a Kufra, nel sud della Libia, e a Bosaso, in Somalia, come succede su base quotidiana ormai da anni. La riprovazione collettiva all’indomani della caduta di El Fasher nel Darfur – circa 7 mila persone uccise in appena cinque giorni, hanno detto fonti sudanesi – ha costretto la diplomazia degli Emirati Arabi Uniti a fare dichiarazioni più caute. Ma alle immagini satellitari di una decina di giorni fa che mostravano dallo Spazio le pozze del sangue lasciato dalle vittime di El Fasher, massacrate dalle Rsf sostenute dagli Emirati, se ne vanno aggiungendo di nuove, altrettanto macabre. L’Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale ha identificato ieri almeno due fosse comuni. Crimini su crimini, come quello testimoniato da un altro fra i tanti video diffusi dagli stessi miliziani guidati da Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, che mostrava la carneficina dell’ospedale saudita di El Fasher, con cinquecento tra medici e pazienti giustiziati senza pietà in poche ore. Il governo di Khartoum ha chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di prendere le misure necessarie per riconoscere Hemedti responsabile di genocidio in Darfur ma nel frattempo la comunità internazionale non è andata oltre una generica condanna della guerra in Sudan, rinnovando inviti astratti a una tregua. Da Washington a Bruxelles, non una voce si è levata a proposito delle responsabilità degli Emirati Arabi Uniti, principale sponsor internazionale delle Rsf.
Andreas Krieg, un ricercatore esperto del Golfo, ha parlato di recente di un “Asse dei secessionisti” sponsorizzato dagli Emirati e contrapposto al più celebre “Asse della resistenza” guidato dall’Iran. Questa rete decentrata di gruppi armati e di potere tocca paesi che potremmo definire “falliti”: la Libia, il Sudan, la Somalia, lo Yemen. In ciascuno di questi, la famiglia reale dei Nahyan ha allungato i propri tentacoli, foraggiando gruppi secessionisti e investendo nel “divide et impera”. Lo scopo è duplice: accaparrarsi le ricchezze estratte da questi paesi e avere un ruolo chiave ai tavoli negoziali nella gestione delle crisi in quadranti strategici. La forza di questa rete emiratina, costruita con pazienza nel corso degli ultimi 15 anni, sta nel livello di autonomia lasciato ai gruppi armati locali. La famiglia Haftar in Libia, Hemedti in Sudan, i separatisti del Puntland e quelli del sud dello Yemen hanno ciascuno una propria agenda che può contare sul sostegno economico e militare di Dubai. Hemedti non è semplicemente al servizio degli Emirati, ma un socio a tutti gli effetti. Negli anni ha messo a disposizione del piccolo paese del Golfo migliaia di combattenti sudanesi schierati nella guerra in Yemen, evitando così agli Emirati gli oneri e i rischi di subire altri danni e vittime come era successo nel 2015, con l’attacco sferrato dai rivali houthi alla base aerea di Marib. L’oro estratto da Hemedti dalle miniere del Darfur viene scambiato in contanti che poi sono depositati nelle banche emiratine e da lì la liquidità finisce nelle casse dell’entourage reale, con la vendita di armi e mercenari da schierare a sostegno delle Rsf. A questo schema economico efficace se ne affianca un altro militare e logistico rendendo la strategia emiratina una macchina perfetta. Dalle basi aeree messe a disposizione di Haftar nel sud-est della Libia – quella di Kufra in particolare – e dall’aeroporto di Bosaso in Somalia le armi provenienti da Dubai fluiscono indisturbate ai combattenti delle Rsf. Rich Tedd, esperto di analisi di dati open source riguardo al Sudan, ha tracciato negli ultimi cinque mesi, da giugno a ottobre, 189 voli cargo tra gli Emirati e il sud-est della Libia. A ottobre c’è stato un picco, con 68 voli provenienti dagli Emirati. Sono i numeri di un arsenale intero dislocato in Africa ma ciononostante il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha mai approvato un embargo delle armi nei confronti dell’intero Sudan, limitandosi a uno che riguarda solamente il Darfur e privo delle forze necessarie per verificarne l’applicazione. Il sistema messo in piedi da Dubai è noto e ben documentato, con migliaia di voli tracciati da anni e con sanzioni economiche già imposte dal Tesoro americano nei confronti di alcune società emiratine usate dai reali del Golfo per sostenere la propria rete di alleanze. Nonostante tali evidenze, il peso politico di Dubai è oggi tale da rendere impossibile, se non controproducente, per la comunità internazionale qualsiasi posizione di condanna. “E’ un grande leader, lo apprezzo molto”, ha detto il presidente americano Donald Trump di Mohamed bin Zayed al Nahyan, il presidente emiratino, in occasione del vertice su Gaza tenuto il mese scorso a Sharm el Sheikh. Proprio il ruolo di primo piano degli Emirati nella pacificazione e nella ricostruzione della Striscia e la sua adesione agli Accordi di Abramo con Israele rende Dubai un interlocutore da preservare con la massima attenzione agli occhi di America ed Europa in nome del necessario realismo diplomatico.
Dietro le quinte però la Casa Bianca ha fatto presente la propria frustrazione per le continue forniture di armi al Sudan. “Se non fosse per gli Emirati, la guerra sarebbe finita”, ha commentato Cameron Hudson, ex inviato speciale degli Stati Uniti in Sudan. Il Wall Street Journal la settimana scorsa ha citato un report dell’intelligence americana in cui Washington si dice “preoccupata” per le armi di fabbricazione cinese, in particolare i droni Rainbow, importate in Sudan attraverso gli Emirati. L’imbarazzo dell’Amministrazione americana è evidente, anche alla luce degli affari miliardari che l’entourage di Trump ha in ballo con gli Emirati. A maggio, Zac Witkoff, figlio dell’inviato speciale degli Stati Uniti in medio oriente, ha annunciato un investimento da due miliardi di dollari da parte di Tahnoon bin Zayed al Nahyan, sceicco di Dubai, nella World Liberty Financial, una società di criptovalute fondata dai Witkoff e da Trump. Solo due settimane dopo, Washington a sua volta ha garantito a Tahnoon l’accesso a centinaia di migliaia di microchip, fondamentali per gli investimenti nel settore dell’IA in cui l’imprenditore emiratino è impegnato.
Gli sforzi degli Emirati per rendersi un attore politico ed economico indispensabile negli equilibri globali si sono concentrate anche in Europa. Lo scorso aprile, Brussels Watch, il portale giornalistico che monitora la trasparenza delle istituzioni europee, ha pubblicato una lunga indagine sulle relazioni speciali intercorse negli ultimi tempi tra gli Emirati e almeno 150 europarlamentari, finiti in qualche modo per interagire con eventi, leader e istituzioni a Dubai. Dal 2017 il paese del Golfo ha intensificato la sua attività di soft power a Bruxelles spendendo parecchio – si stima una somma compresa tra i 100 e i 200 milioni di euro dall’inizio degli anni Duemila a oggi – anche tramite società esterne di lobby come Project Associates, Edelman e Glover Park Group. Poi ci sono i finanziamenti dati a gruppi informali di amicizia e partenariato fra il Parlamento Ue e gli Emirati, finanziando visite ufficiali e non ufficiali nel Golfo, sovvenzionando panel di discussione sulle riforme e gli investimenti in corso d’opera negli Emirati. Secondo quanto documentato da Brussels Watch, alcuni europarlamentari – come David Lega (Svezia) e Nicola Beer (Germania) – il paese del Golfo ha sovvenzionato missioni diplomatiche non rendicontate dai politici che hanno così violato le rigide regole sulla trasparenza in vigore a Bruxelles ritrovandosi poi a votare risoluzioni del Parlamento in aperto sostegno degli Emirati.
Il silenzio su Dubai regna anche in Italia, innescando peraltro un cortocircuito. Mentre il paese del Golfo sovvenziona la guerra in Sudan generando 12 milioni di sfollati, il governo italiano non si esprime sul ruolo degli Emirati ma non manca nemmeno di esternare preoccupazione per l’aumento dei migranti sudanesi fuggiti in Libia e pronti a imbarcarsi verso l’Italia. I dati dell’Unhcr aggiornati al primo novembre dicono che nel paese nordafricano i richiedenti asilo sudanesi sono la quasi totalità, con 86.849 persone fuggite dalla guerra. Da allora, il governo Meloni si è prodigato per concludere accordi di cooperazione per il controllo della tripla frontiera tra Sudan, Libia ed Egitto rendendola il più impermabile possibile. Lo scorso giugno, mentre il vicecomandante in capo della Cirenaica, Saddam Haftar, assicurava agli emiratini l’uso della base aerea di Kufra da cui arrivano le armi in Darfur, era accolto a Roma dai ministri Crosetto e Piantedosi, promettendo loro il controllo delle rotte migratorie in cambio di “aiuti” messi a disposizione dall’Italia – non ultimo, come rivelato allora dal Foglio, l’offerta italiana di addestrare le guardie di confine degli Haftar.
Anche per l’Italia insomma il partenariato con gli Emirati è fondamentale e il 24 febbraio scorso Giorgia Meloni l’ha definito “una giornata storica” per le relazioni fra Roma e Dubai, perché sanciva uno sforzo inedito per “portare la collaborazione bilaterale a un livello mai sperimentato prima”. Per la prima volta un presidente emiratino, Mohamed bin Zayed Al Nahyan, è sbarcato a Roma per incontrare le massime cariche istituzionali italiane. E poi, al Business Forum organizzato nella capitale, sono state firmate 40 intese di collaborazione, molte sotto forma di memorandum of understanding. “Vogliamo fare un lavoro di lungo periodo. E declinare questo lavoro sulle tematiche centrali dei prossimi anni, dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale ai data center, dal dominio subacqueo alla ricerca spaziale, dalle energie rinnovabili alle terre rare”. L’obiettivo è di arrivare a un piano di investimenti di 38 miliardi di euro, una cifra ben superiore agli attuali 9 miliardi di interscambio del 2024 – senza considerare il petrolio – che comunque ha fatto dell’Italia il secondo partner commerciale europeo di Dubai con una crescita del 14,5 per cento rispetto al 2023. “Gli accordi e gli investimenti emiratini sono determinanti per la crescita e il consolidamento del nostro sistema industriale”, ha detto anche il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini. Insomma, di Dubai non si può più fare a meno, soprattutto perché le relazioni fra i due paesi avevano toccato il punto più basso solo quattro anni fa. L’allora governo Conte, con una decisione controversa, aveva bloccato le licenze per le esportazioni di armi agli Emirati, coinvolti allora nella guerra in Yemen, sulla base della legge 185/1990 che vieta l’export di armamenti verso stati coinvolti in conflitti e violazioni dei diritti umani. Un errore strategico che portò alla dura reazione di Dubai, che decise di ritirare la concessione all’Italia della base aerea di al Minhad, testa di ponte per le forniture logistiche dei contingenti italiani nel medio oriente. Ora che il vento del Piano Mattei ha riportato alla distensione con gli Emirati, il 24 ottobre scorso il capo di stato maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano, è volato ad Abu Dhabi per incontrare il suo omologo Essa Saif Mohamed a Mazrouei e il ministro della Difesa, Mohammed Mubarak Fadel al Mazrouei. “Portolano ha ricordato quanto il paese mediorientale sia legato all’Italia da una fortissima amicizia e da una comune visione e impegno condiviso per la stabilità e la sicurezza globale”, ha fatto sapere una nota del nostro ministero della Difesa. Si è parlato anche di intese riguardo all’industria delle armi, di elicotteri, Cyber Electro-Magnetic Activities (Cema), ambiente underwater e dell’addestramento dei piloti emiratini alla base di Decimomannu.
Ma proprio mentre il ruolo militare degli Emirati in Sudan è finito di nuovo sotto la lente delle Nazioni Unite, accordi come questi rischiano di mettere in difficoltà l’Italia, al netto della innegabile necessità di preservare le relazioni con il paese del Golfo. Ne sa qualcosa il Regno Unito, che a fine ottobre ha “scoperto” che alcuni sistemi di puntamento e parti di ricambio per veicoli corazzati venduti a Dubai sono stati ritrovati in Sudan, a disposizione delle Rsf di Hemedti. A svelare lo strano trasferimento di materiale bellico è stato un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che indaga ora su queste forniture che hanno alimentato una guerra che ha raggiunto i 150 mila morti in tre anni, 12 milioni di sfollati e 25 milioni di persone in condizioni di fame estrema. E’ quella che è considerata la più grave crisi umanitaria al mondo.
meglio giovani e fortunati