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Lezioni di pragmatismo
Milei, il futuro che resta
Tutti prevedevano una sconfitta del presidente libertario alle legislative di metà mandato. E invece, gli argentini hanno scelto di proseguire sulla strada dei sacrifici piuttosto che tornare su quella del passato fatta di assistenzialismo e inflazione
Non l’hanno visto arrivare e non pensavano di vederlo restare. “No la ven”, non lo vedono, è lo slogan diffuso tra i seguaci di Javier Milei, che ha costruito il suo consenso soprattutto tra i giovani e attraverso i social network. Il senso del motto nella community libertaria è che la politica tradizionale da un lato non comprende il cambio di paradigma che c’è stato in Argentina, e dall’altro non riconosce i risultati positivi delle riforme del nuovo governo. Non lo vedono sia perché non sono capaci di vedere sia perché non vogliono vedere. La vittoria di Milei alle elezioni legislative di metà mandato ha colto tutti di sorpresa: i mercati, gli osservatori internazionali, i media, l’opposizione e la stessa squadra del presidente. Stavolta neppure lui l’aveva vista arrivare la vittoria.
Dopo la pesante sconfitta del 7 settembre per 14 punti nella provincia di Buenos Aires, che rappresenta circa il 40 per cento dell’elettorato argentino, tutti prevedevano una sconfitta del presidente libertario alle elezioni del 26 ottobre per il rinnovo di metà del Congresso e un terzo del Senato. Nelle settimane prima del voto gli argentini hanno iniziato a comprare dollari per timore di una svalutazione post-elettorale e gli investitori esteri hanno iniziato a vendere asset argentini (l’indice Merval ha registrato un -16 per cento il giorno dopo la sconfitta di Milei nell’elezione provinciale). Ma non solo: il peso si è deprezzato rispetto al dollaro; la Banca centrale ha iniziato a vendere le sue poche riserve per sostenere il tasso di cambio; il rischio-paese, lo spread rispetto ai titoli di stato Usa, è schizzato verso i 1.500 punti. Il collasso finanziario era imminente. L’opposizione, che soffiava sulla destabilizzazione annunciando di non voler pagare il “debito ingiusto”, già pregustava la fuga in elicottero dalla Casa Rosada del presidente, come accadde durante la crisi del 2001 a Fernando de la Rúa.
E invece Milei ha stravinto le elezioni con oltre il 40 per cento dei consensi, circa 10 punti sopra l’opposizione kirchnerista. Ha vinto di misura persino nella provincia di Buenos Aires, il bastione del peronismo, dove meno di due mesi prima aveva preso una batosta che sembrava annunciare il suo tramonto. La reazione dei mercati è stata euforica. Le azioni argentine sono cresciute fino al +50 per cento, alla riapertura della Borsa l’indice Merval ha registrato un +31 per cento in un giorno, il più grande aumento in 30 anni (il secondo miglior risultato era stato registrato nel 2023, quando Milei vinse il ballottaggio presidenziale) e lo spread è crollato di oltre 400 punti in un giorno (ora è attorno a 650 punti). Anche l’atteggiamento della stampa internazionale è cambiato drasticamente. Un esempio su tutti è quello dell’Economist. Pochi giorni prima del voto, al culmine di una serie di commenti molto critici, il settimanale britannico pubblicava un articolo sulle falle del piano economico dal titolo: “Perché gli investitori non credono all’Argentina”. Subito dopo il trionfo elettorale, l’Economist ha pubblicato un articolo di segno diametralmente opposto dal titolo: “L’opportunità di Javier Milei di trasformare l’Argentina e dare una lezione al mondo”. Addirittura.
In sostanza, non è che gli investitori internazionali non si fidassero di Milei: al contrario, temevano che una sua sconfitta aprisse di nuovo le porte del caos peronista. Esattamente la stessa paura che avevano gli argentini: il ritorno all’instabilità macroeconomica e all’inflazione. Il motivo per cui questo strano economista, che nei talk-show citava Milton Friedman e nelle piazze agitava la motosega, ha ricevuto una conferma dagli elettori è lo stesso per cui lo avevano eletto presidente. In Italia sono stati appena pubblicati due libri sul presidente argentino, “Il cammino libertario” (Rubbettino), in cui lo stesso Milei racconta la genesi del suo pensiero economico del suo percorso politico, e “L’era Milei” (Ibl libri) in cui l’economista libertario Philip Bagus spiega come le idee anarco-capitaliste si siano potute imporre in Argentina. Ma la spiegazione è per certi versi molto più semplice: è nelle strade più che nei libri. Non è che a Buenos Aires i borghesi di Palermo o i poveri delle villas miseria nel conurbano siano improvvisamente diventati appassionati di teorie monetarie e filosofia libertaria, studiosi di Thomas Sargent o seguaci di Murray Rothbard. Semplicemente non ne potevano più dell’inflazione. Hanno dato fiducia a chi aveva promesso di abbatterla e gliel’hanno confermata dopo che ha mostrato i risultati.
Questo spiega sia il successo di Milei sia lo sbalordimento degli osservatori. Gli elettori argentini sono pragmatici, mentre i commentatori internazionali ideologici. Ai primi non interessa la filosofia minarchista del presidente, basta che riporti stabilità all’economia; mentre i secondi sono più interessati a cosa il presidente argentino dice rispetto a cosa fa realmente. Il manifesto del pregiudizio ideologico è un appello di oltre 100 economisti progressisti, tra cui i famosi Thomas Piketty, Gabriel Zucman e Branko Milanovic, pubblicato poco prima del ballottaggio presidenziale, nel novembre 2023, dal titolo: “I pericoli del programma economico di Javier Milei in Argentina”. Il senso della lettera era che se gli argentini avessero votato per il candidato che prometteva di riequilibrare i conti per stroncare l’inflazione e di liberalizzare l’economia per produrre crescita sarebbe stata una catastrofe: “Il programma proposto da Milei creerebbe maggiore disuguaglianza socioeconomica riducendo il ruolo dello stato nella redistribuzione e nel welfare. Una riduzione significativa della spesa pubblica aumenterebbe i già elevati livelli di povertà e disuguaglianza e potrebbe portare a un aumento significativo delle tensioni e dei conflitti sociali – prevedevano senza alcun margine d’incertezza gli economisti –. L’idea di Milei di tagliare drasticamente le tasse riducendo al contempo la spesa pubblica ridurrebbe significativamente la capacità dello stato di garantire i diritti sociali ed economici dei cittadini. Nel frattempo, ulteriori riduzioni delle entrate fiscali pubbliche aggraverebbero la crisi fiscale”. Aumento della disuguaglianza, crescita della povertà, tensioni sociali, bilancio comunque in deficit e addirittura un ulteriore aumento dell’inflazione. Un cataclisma presentato neppure come uno scenario possibile, ma come una certezza assoluta: se votate Milei per l’Argentina sarà una calamità.
Quell’appello presentava degli aspetti paradossali. Il primo è che pareva descrivere un paese normale e ordinato che rischiava di entrare in crisi a causa delle idee bizzarre di un candidato populista, come se si trattasse di mettere in discussione la socialdemocrazia scandinava. Ma la realtà era esattamente opposta. L’Argentina che Milei ha ereditato nel 2023 era un paese devastato: economia stagnante da 15 anni e in recessione (-1,9 per cento), inflazione al 211 per cento con andamento crescente, povertà galoppante, Banca centrale con riserve nette negative, debiti in scadenza con il Fmi ormai impagabili, controlli ai movimenti di capitali per cittadini e imprese, tassi di cambio multipli, spread a 2.500 punti. Un’economia senza moneta e senza credito, sul bordo dell’ennesimo default e dell’iperinflazione, come ciclicamente succede da decenni all’Argentina. Il secondo aspetto paradossale era che l’altro candidato al ballottaggio era il ministro dell’Economia uscente, Sergio Massa: il principale responsabile del dissesto finanziario e del disastro sociale. Gli economisti progressisti erano più preoccupati della possibile vittoria di un “liberista” che delle concrete condizioni di precarietà e indigenza degli argentini prodotte dal populismo peronista e socialista: enorme spesa pubblica in deficit finanziata dalla Banca centrale attraverso la tassa d’inflazione. La flat tax al 200 per cento: era questo il modello fiscale e sociale che i progressisti volevano preservare dalla motosega.
Il terzo aspetto paradossale è che nessuna delle sciagure annunciate da Piketty & co. si è verificata. Anzi, è accaduto il contrario. L’aggiustamento fiscale di 5 punti di pil, fatto in pochi mesi prevalentemente tagliando la spesa pubblica (-28 per cento), non ha aggravato la recessione ma ha prodotto un rimbalzo del pil (+4,5 per cento nel 2025 secondo le stime del Fmi). L’uso della motosega sulle uscite non ha fatto aumentare il numero di poveri, ma l’ha ridotto: il tasso di povertà, inizialmente schizzato oltre il 50 per cento, ora è attorno al 30 per cento ovvero 10 punti in meno rispetto al 40 per cento lasciato in eredità dal governo Fernández-Kirchner-Massa. L’inflazione, che era sopra il 200 per cento, arriverà a fine anno sopra al 20 per cento. La disuguaglianza non è aumentata, ma si è leggermente ridotta (l’indice di Gini sulla distribuzione di reddito nel II trimestre 2025 è pari al 42,4 per cento mentre era pari al 43,5 per cento nel IV trimestre 2023).
Certo, i problemi non sono affatto risolti. Come la storia insegna, in Argentina è sempre più probabile che i piani di stabilizzazione macroeconomica falliscano e quello di Milei potrebbe non fare eccezione. Anche questo governo è arrivato a un passo dal punto di rottura. La sconfitta nella provincia di Buenos Aires, a causa di errori politici e scandali di corruzione, unita alle falle presenti nel piano economico per la rinuncia ad accumulare riserve valutarie con l’obiettivo di mantenere il tasso di cambio contenuto fino alle elezioni, aveva innescato una crisi di fiducia. Senza l’aiuto provvidenziale di Donald Trump, che attraverso il ministro del Tesoro Scott Bessent ha messo sul tavolo uno swap da 20 miliardi di dollari più una promessa di mobilitare altri 20 miliardi attraverso banche private, Milei sarebbe arrivato al voto senza dollari o non ci sarebbe arrivato affatto. L’aiuto americano ha risolto temporaneamente la crisi di liquidità e la vittoria di Milei ha risolto per il momento la crisi di fiducia.
Ora la situazione, che sembrava disperata, è cambiata radicalmente. Per l’Argentina si apre una finestra di opportunità. Sul piano politico Milei, che nella prima metà del mandato ha governano con un’esigua minoranza parlamentare, ha superato la soglia di un terzo dei seggi che gli consente di sostenere il veto presidenziale e ha un gruppo parlamentare del 40 per cento al Congresso che gli consente di trovare accordi con i partiti centristi e dei governatori da una posizione negoziale di forza. Dopo il voto sembra cambiato anche l’atteggiamento del presidente: nei primi due anni è stato eccessivamente aggressivo nei confronti di tutte le forze politiche, vicine e lontane, oltre che della stampa. Ora appare molto più dialogante e incline a creare una coalizione più ampia. Giovedì ha convocato una riunione con 20 governatori (esclusi i pochi di stretta fede kirchnerista), con cui in passato si è scontrato duramente, per trovare un accordo su come approvare importanti riforme come quella del lavoro, del sistema tributario e delle pensioni in cambio di concessioni fiscali (senza mettere in discussione il surplus di bilancio, pietra angolare della politica economica del governo). L’altra novità è che la Banca centrale dell’Argentina ha annunciato che inizierà ad accumulare riserve e questo, insieme alla rete di protezione finanziaria garantita dagli Stati Uniti, può favorire un’ulteriore discesa dello spread che dovrebbe far tornare l’Argentina sui mercati internazionali: rinnovare il debito alla scadenza anziché doverlo pagare integralmente darebbe sollievo alla cronica sete di dollari del paese.
Gli incentivi politici ed economici a far funzionare meglio le cose ora sono più allineati. Un ulteriore fattore di stabilizzazione per il paese potrebbe essere un’evoluzione verso una linea di maggiore razionalità economica dell’opposizione, ancora dominata dal populismo dell’ex presidentessa Cristina Kirchner che guida il partito peronista dagli arresti domiciliari per una condanna definitiva per corruzione. I paesi sudamericani che hanno conquistato la stabilità lo hanno fatto anche grazie a un consenso trasversale sui fondamentali dell’economia. L’appello dei 100 e passa economisti progressisti sarebbe più utile in questo senso, se riuscisse a far maturare il peronismo verso una proposta economica decente, più simile al Frente amplio dell’Uruguay che al chavismo del Venezuela. Perché l’esistenza di un’opposizione che riesce a mettere d’accordo i mercati internazionali e gli elettori – entrambi terrorizzati dal ritorno a un regime di default, svalutazioni e alta inflazione – è un danno per la stabilità del paese anche se perde.
Prima “non lo vedevano”, ma ora è chiaro a tutti che buona parte dell’instabilità argentina è dovuta al rischio politico. Gli argentini hanno visto l’orlo del precipizio e hanno scelto di proseguire su un’incerta strada fatta di sacrifici piuttosto che tornare su quella certa del passato fatta di assistenzialismo e inflazione. Lo stesso Milei, che per qualche giorno si è affacciato sull’abisso, ora sembra più conciliante e disposto al compromesso per attuare le riforme. Sarebbe un’altra lezione di pragmatismo per quelli che “No la ven”.