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C'era la Cia della libertà che durante la Guerra fredda difendeva i valori dell'occidente

Pierluigi Battista

Il tempio degli intrighi “ha fatto anche cose buone”: erogò ingenti risorse finanziarie a musicisti e scrittori facendo fiorire in Europa un’intellighenzia antitotalitaria. Oggi nell’America trumpista invece si risponde al neo-oscurantismo censorio della cultura woke con una devastante offensiva oscurantista anti-woke

Quando gli Stati Uniti erano e volevano essere un faro di libertà – ora non più – durante la Guerra fredda fiumi di denaro finanziarono la cultura europea: artisti, scrittori, musicisti, editori pagati spesso a loro insaputa nientemeno che dalla Cia. Quando l’America – ora non più – voleva e sapeva difendere i valori dell’occidente libero contro le minacce del totalitarismo, erogò quantità ingenti di risorse finanziarie per dare sostegno in Europa ai musicisti e ai pittori e agli scrittori della “sinistra non comunista” e anticomunista che avevano subito o stavano ancora subendo una doppia persecuzione da parte del dispotismo nazista e di quello comunista. 

 

Nell’America trumpista invece no. Si risponde al neo-oscurantismo censorio della cultura woke con una devastante offensiva oscurantista anti-woke: libri proibiti contro libri proibiti, censura contro censura, biblioteche svuotate contro biblioteche svuotate. Una spirale regressiva e speculare senza fine, o meglio con un esito infausto: la fine della libertà culturale, stritolata nella tenaglia di una doppia intolleranza, di un duplice fanatismo prepotente e soffocante. Ma forse quelli del Maga nemmeno sanno che la Cia, sì, proprio il tempio degli intrighi internazionali, della politica sotterranea e indicibile, delle manovre occulte, si impegnò durante la guerra fredda in un’impresa ispirata da un solo obiettivo: dimostrare, soprattutto ai cittadini di quella fetta di Europa caduta sotto il tallone della tirannia sovietica che da “questa parte”, la parte giusta, la parte della libertà, la cultura poteva essere audace, libera, creativa, dinamica, spregiudicata, irriverente e che il potere l’avrebbe addirittura sostenuta e foraggiata.

 

Ci sono libri che raccontano questa epopea ancora nascosta nell’ombra dell’imbarazzo. Libri dall’esplicito contenuto complottista e molto anti-americani dove traspare l’orrore per una condotta considerata scandalosa, ma straordinariamente ben informati, come “La guerra fredda culturale” di Frances Stonor Saunders pubblicato in Italia dall’editore Fazi con una postfazione di Giovanni Fasanella. E libri che apprezzano quella lunga marcia per la libertà culturale sostenuta dalla Cia, come “Benedetti americani” di Massimo Teodori. Del resto tutto era cominciato dalla lotta contro il nazismo con la nascita dell’Oss (acronimo di Office of Strategic Services), fondata alla vigilia dell’attacco giapponese a Pearl Harbor con una connotazione fortemente antitotalitaria e di cui la nuova Cia sarà legittima discendente. E così, a cavallo tra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, fu istituito il “Congresso per la libertà della cultura” sotto la direzione dell’agente della Cia Michael Josselson, dotato di uffici presenti in oltre trenta paesi, compresa una sezione italiana che annoverava tra i suoi seguaci Tristano Codignola, con la sua casa editrice La Nuova Italia. Immediata fu l’adesione di numerosi intellettuali europei di prestigio come Raymond Aron e Isaiah Berlin, ufficialmente ignari della matrice segreta e inconfessabile dell’organizzazione. Ma l’impulso militante si alimentava grazie al lavoro entusiastico e infaticabile del compositore Nicolas Nabokov, esule dopo la presa del potere dei bolscevichi in Russia nonché cugino del più celebre scrittore Vladimir. E anche, inizialmente, del filosofo Bertrand Russell, la cui affidabilità ideologica venne tuttavia seriamente compromessa dalle ripetute a acrobatiche giravolte politiche che lo avevano visto come protagonista nei decenni: prima simpatizzante dei bolscevichi e poi, dopo aver conosciuto Lenin e spaventato dall’“intenso ricordo di fanatismo e crudeltà mongolica” di cui il carismatico leader sovietico aveva fatto mostra, addirittura esortò l’occidente a trattare rudemente Stalin con la minaccia della bomba atomica, salvo poi farsi fervente, in una manciata d’anni, paladino del disarmo nucleare.

 

Nabokov offrì all’offensiva della guerra fredda culturale l’energia di una mobilitazione permanente in campo musicale. Progettò un grande festival nel ‘52 a Parigi, “una sfida della cultura del mondo libero contro l’incultura dell’universo totalitario” chiamando Igor Stravinskij alla direzione artistica. Nel programma del festival, intitolato “Oeuvres du Vingtième Siècle”, erano comprese esecuzioni della “Sagra della Primavera” realizzate dalla Boston Symphony Orchestra, opere di compositori proscritti sia da Hitler che da Stalin come Alban Berg. O di Arnold Schönberg, fuggito dalla Germania nel ‘33, “ebreo e decadente” per i nazi, ma anche “caotico, inane, antiestetico” per gli scherani della critica musicale ufficiale dell’Urss. O di un altro musicista messo ai margini dalle dittature come Paul Hindemith. O di Claude Debussy, oramai scomparso e tuttavia bollato come “un albero impressionista”, tra i cui contorti rami sarebbero cresciuti “i fiori del male” secondo le riviste sovietiche. Furono scelte opere, tra le altre, di Béla Bartók, di Darius Milhaud (“tessitore servile della borghesia”), di Arthur Honegger. Per arricchire il menù culturale del festival, una nave dall’evocativo nome “Liberté” portò dalle collezioni americane opere di Matisse, Chagall, Cézanne, Kandinsky e molti maestri del modernismo: “Tutto quello che il totalitarismo disprezzava e odiava”, ha notato Frances  Stonor Saunders.

 

Si tennero anche molti dibattiti letterari grazie all’imponente sforzo finanziario del Congresso targato Cia con la partecipazione di Eugenio Montale, Roger Caillois, William Faulkner, Ignazio Silone, John Dos Passos, diventato un intransigente anticomunista, e André Malraux, futuro ministro gollista della Cultura. La Boston Symphony Orchestra, esibita come simbolo dell’eccellenza culturale americana, venne finanziata con un’erogazione straordinaria di fondi per una lunga tournée nelle maggiori città europee. Un altro festival, foraggiato con le riserve della Cia, fu organizzato a Roma nel 1954 sotto le insegne di una “conferenza internazionale della musica del ventesimo secolo”, che sancì la prevalenza, presso gli organizzatori riuniti negli eleganti e mondani uffici di Palazzo Pecci, della musica atonale e dodecafonica, puntando sull’avanguardia di Alban Berg, di Luigi Dallapiccola, di Elliott Carter, di Luigi Nono. Musica dodecafonica e arte astratta: questa fu la scelta per sottolineare l’antitesi con la prigione estetica e politica propugnata dai dettami del lugubre “realismo socialista”. Arte non figurativa “che i sovietici disprezzavano”. La Cia non esitò a sponsorizzare le opere di Jackson Pollock, malgrado il passato ribelle e filocomunista dell’artefice dell’“action painting” con cui l’artista faceva sgocciolare i colori sulle ampie tele distese sul terreno. Il MoMA, il Museum of Modern Art di New York, generosamente sostenuto con le risorse cospicue del mecenate Nelson Rockefeller e con quelle, anch’esse ragguardevoli, delle Fondazioni legate alla Cia, divenne il quartier generale di quella che fu definita, non senza una deliberata forzatura ideologica in senso atlantista, “la pittura della libera iniziativa”, e dunque non sbagliava bersaglio il mensile comunista “Masses & Mainstream” quando infiocchettò un articolo beffardo sul MoMA, nemico giurato delle ossessioni del “realismo socialista”, con il titolo “Dollari, scarabocchi e morte”. 

 

A Parigi, sempre sotto l’egida del Congresso per la libertà della cultura, venne inaugurato un festival artistico con il titolo “Capolavori” che diventerà una mostra itinerante: “Dodici pittori scultori americani contemporanei”. Poi una mostra “Giovani pittori” presso la Galleria nazionale d’arte moderna a Roma, con il presidente Eisenhower che dichiarava: “I nostri artisti saranno liberi di creare con sincerità e convinzione, quanto è diverso un regime tirannico”. Poi, sempre a Parigi (la “capitale dei compagni di strada” filosovietici, secondo una sferzante definizione di Arthur Koestler), la mostra “Origini poetiche della pittura attuale” con opere, oltre che di Pollock, anche di Mark Rothko, Alexander Calder, e con un premio speciale che venne consegnato a Willem de Kooning: il meglio delle avanguardie artistiche della seconda metà del Novecento contrassegnato dalla Guerra fredda. 

 

La linea era: sostegno incondizionato alla sinistra culturale non comunista e anticomunista (Non-Communist Left era la sigla ufficiale). E infatti la Cia, con l’appoggio del presidente Eisenhower, ebbe un ruolo decisivo per mettere fine all’ondata isterica di fanatismo paranoico passato alla storia con il nome di maccartismo (molto simile ai deliri censori del movimento Maga). La Cia voleva promuovere libri, non escluderli dalle biblioteche. Favorì con cospicui finanziamenti la diffusione di testi come “Ritorno dall’Urss” di André Gide, “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler (il Foreign Office britannico ne acquistò e distribuì circa 50 mila copie), “1984” di Orwell. “Il Dio che è fallito”, con il contributo di ex comunisti redenti come Ignazio Silone, André Gide, Richard Wright, Arthur Koestler, Louis Fischer e Stephen Spender fu fortemente promosso in tutta Europa e in particolare in Germania, con l’invio clandestino di un numero molto alto di copie nei Paesi del socialismo reale. Si promosse la trasposizione cinematografica delle “Fattoria degli animali” di Orwell, con i cartoni animati che fecero conoscere a tutti i bambini europei le malefatte della nomenklatura di maiali che aveva tradito gli ideali rivoluzionari per inaugurare un’èra di tirannia soffocante. E ovviamente anche il cinema non poteva essere trascurato dagli strateghi della guerra fredda culturale, come è testimoniato dall’aiuto finanziario per un film come “Sentieri Selvaggi” di John Ford.

 

Furono fondate riviste prestigiose, letture obbligatorie nel mondo intellettuale europeo. In Francia si diede vita a “Preuves”, con l’intento di contrastare l’influenza della sartriana “Les Temps Modernes”. In Inghilterra la scelta cadde sul poeta Stephen Spender come direttore della nuova “Encounter”. In Italia arrivò “Tempo Presente”, con Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. Con i fondi riservati si diede vita alla rivista tedesca “Der Monat” inizialmente stampata e trasportata per via aerea a Berlino “a bordo degli aerei cargo alleati dai quali dipendeva la città durante il blocco” della città decretato dai sovietici.

 

Si dava realizzazione a un progetto, o meglio al senso eroico di una missione che, come ha raccontato Victoria de Grazia nel suo “L’impero irresistibile”, risaliva a un’epoca ben precedente alla guerra culturale contro il totalitarismo sovietico. Una sfrontata  fiducia in sé che nel 1916 aveva fatto dire  al presidente Thomas Woodrow Wilson: “Fate in modo che le vostre idee e la vostra fantasia si diffondano per il mondo intero e, forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano”. Fu questa promessa di unione tra prosperità materiale e arricchimento intellettuale, di benessere e libertà a spingere le fondazioni culturali cresciute all’ombra della Cia ad allestire un poderoso “Piano Marshall” della cultura, anche se molti intellettuali europei, imbevuti del loro rivendicato conservatorismo di pregiudizi contro l’eccesso di “meccanizzazione” dell’american way of life, diffidavano di questa contaminazione tra benessere materiale e creatività culturale. Come scriveva Leo Longanesi, certo non un campione della cultura di sinistra, nella Napoli appena liberata dai nazisti: “La carne in scatola la mangio, ma le ideologie che le accompagnano le lascio nel piatto”. Poi, con la guerra in Vietnam, cambiò totalmente l’atmosfera. Avere stretti rapporti con l’America divenne nell’intellettualità europea uno stigma da rimuovere. 

 

E quando nel 1968 venne rivelato che “Tempo Presente” era stata finanziata con fondi americani di origine Cia, la rivista non resse all’urto, come se una nuvola di discredito avesse offuscato il prestigio di un cenacolo intellettuale che, da posizioni di minoranza, aveva vivacizzato il dibattito culturale italiano per più di dodici anni. Come scrive Raffaele Manica presentando il Meridiano Mondadori a lui dedicato con il titolo “Lo spettatore critico”, Nicola Chiaromonte ne uscì profondamente scosso: “E’ un momento di crisi, tutto si disfa. Pochissime le persone con cui mi posso intendere. Credo che ormai non ci sia niente da fare per tenere in piedi la rivista oltre la fine dell’anno”. L’isolamento di Chiaromonte fu totale e doloroso, ma il direttore di “Tempo Presente” non rinunciò a denunciare i motivi dell’ostilità del mondo intellettuale contro la rivista: “Le ragioni per cui finisce questa modesta impresa che è T.P. sono scoraggianti: vanno cercate nel conformismo accompagnato da veri e propri fenomeni di demenza e disintegrazione morale”. Eravamo in un altro ‘68, oggi rimosso: “L’invasione della Cecoslovacchia, che in superficie è stata accompagnata da grida di orrore e d’indignazione, in realtà ha per effetto una gran paura della Russia e un grande sacro rispetto per la sua potenza brutale”. La guerra fredda non era ancora finita. Ma adesso era impossibile dire che la Cia aveva fatto anche cose buone.

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