In America

La paralisi americana in quattro settimane di shutdown. Nessuna via d'uscita

Marco Arvati

Senza bilancio federale, gli Stati Uniti sospendono buoni pasto, servizi educativi e stipendi pubblici. La guerra fra Trump e i democratici lascia milioni di cittadini in pausa. Cosa cambia dal primo novembre 

Gli Stati Uniti sono entrati nella quarta settimana di shutdown, e una risoluzione dello stallo che ha bloccato il paese sembra ancora lontana. La conseguenza diretta, però, è che sempre più programmi federali sono momentaneamente bloccati per mancanza di fondi: a venire colpiti sono soprattutto i cittadini a basso reddito che vedono congelati programmi di assistenzialismo su cui fanno affidamento per gestire le proprie entrate mensili.

 

A partire dal primo novembre, infatti, verrà messo in pausa il programma federale Snap (Supplemental Nutrition Assistance Programs), che garantisce buoni pasto per persone indigenti, su cui fanno affidamento circa 40 milioni di statunitensi. L’Amministrazione ha confermato che non cercherà di spostare fondi da altre voci di bilancio per tenerlo attivo, anche perché spera che le storie personali dei cittadini più poveri senza buoni governativi possano convincere i democratici a porre fine allo shutdown. Una decisione che ha portato a una causa con vari stati, che sperano che un giudice imponga al presidente di spostare i fondi. Nonostante questo, il leader democratico al Senato Chuck Schumer continua a ripetere che “la scelta di tenere o meno aperto il governo è solo nelle mani del presidente”. Ma non sono soltanto i buoni pasto a terminare, salterà anche il programma Head Start, che garantisce centri per bimbi in età prescolare, utilizzato da 800.000 bambini al di sotto dei sei anni e verranno tagliati i servizi aerei essenziali, che garantiscono i collegamenti con le piccole comunità rurali. In più, dopo un mese di stallo, gli stipendi dei dipendenti federali sono completamente a secco. Il sindacato di questa categoria di persone ha ufficialmente chiesto ai democratici di votare il bilancio, così da poter riaprire tutto e ricominciare a pagare gli stipendi.

È, però, più facile a dirsi che a farsi. A livello politico la situazione è bloccata fin dall’inizio dello shutdown. Dopo che la Camera ha votato il bilancio e il Senato non è riuscito a confermarlo, i due partiti hanno smesso di parlarsi e le condizioni per porre fine allo stallo sono ancora le medesime. I democratici chiedono che i repubblicani facciano marcia indietro rispetto al bilancio votato alla Camera, garantendo l’estensione di alcuni sussidi sanitari in modo da non far aumentare il prezzo delle polizze assicurative. I repubblicani, dal canto loro, esigono che i democratici votino il bilancio senza emendamenti, così come è passato alla Camera, per poi discutere di possibili estensioni dei sussidi in un secondo momento. Nessuna delle due parti ha intenzione di cedere, e non ci sono stati rilevanti incontri per accordarsi dal tentativo dei leader democratici Schumer e Jeffries di aprire un dialogo direttamente con Trump, terminato malissimo, con le battute razziste del presidente su Truth Social a margine dell’incontro. 

Nel frattempo, lo speaker della Camera Mike Johnson ha di fatto terminato le attività del suo ramo del Parlamento un mese fa, non appena è riuscito a far votare ai suoi il bilancio, ponendo sul Senato tutto il peso dello stallo. Una posizione criticata anche da alcuni deputati repubblicani, come il centrista Kevin Kiley, che continua a presentarsi tutti i giorni in ufficio chiedendo ai colleghi di tornare. La motivazione sottesa a questa chiusura è la difficoltà di Johnson a governare la sua esigua maggioranza, in un momento in cui la linea repubblicana è quella di non cedere e incolpare gli avversari: tra i suoi deputati ci sono, infatti, alcuni moderati, espressione di collegi poveri, che sarebbero favorevoli ad ampliare sussidi e potrebbero votare contrariamente a come richiesto dalla leadership. 

Nel mentre, in Senato alcuni esponenti repubblicani di rango più basso flirtano apertamente con l’idea di demolire una volta per tutte il filibuster, lo strumento arcaico, che i democratici hanno più volte tentato di eliminare, che richiede una maggioranza qualificata di 60 senatori per la maggior parte delle votazioni, e che di fatto garantisce da decenni un potere di veto della minoranza sulle leggi, come sta avvenendo in questo caso. Tommy Tuberville, senatore repubblicano dell’Alabama, ha affermato che “bisogna liberarsi del filibuster”: un’idea che non piace al leader repubblicano al Senato, John Thune, che afferma sia “una pessima idea”. Intanto, mentre deputati e senatori discutono di regole e procedure senza sedersi a un tavolo per porre fine allo stallo, i cittadini iniziano a sentire le difficoltà di tenere chiuso il governo così a lungo: soluzioni nel breve termine, ad oggi, continuano a non vedersi. 

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