Andrea Mantegna, “Giulio Cesare sul carro trionfale”, nona tela dai “Trionfi di Cesare in Gallia”, tempera a colla, 1485-1505 

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Che business, la pace

Siegmund Ginzberg

Donald Trump come i leader dell’antica Roma: vuole inaugurare l’età dell’oro, basta che il capitale ce lo mettano gli altri. Interesse strategici e guadagni privati, gli alleati in seconda fila e i dittatori corteggiati

Donald Trump ha avuto il suo trionfo. Per lui la pace è un business. Il trionfo un grande show. Come lo era per gli antichi romani. Il discorso pronunciato dal presidente americano alla Knesset non è stato solo un’esercitazione di retorica trionfalistica. E’ l’enunciazione di un programma. La più articolata finora. 

Ha annunciato un’“età dell’oro”, “per Israele e per il medio oriente”. Fatta di affari, commerci, investimenti, infrastrutture, grandi progetti edilizi, ponti di cooperazione “da Tel Aviv a Dubai, da Haifa a Beirut, da Gerusalemme a Damasco, da Israele all’Egitto, dall’Arabia saudita al Qatar, da India e Pakistan a Indonesia e Iraq, dalla Siria al Bahrain, Turchia, Emirati Arabi e Giordania, Oman, Armenia e Azerbaijan”. Visione grandiosa. Che richiama quella che fu la massima espansione dell’Impero romano. Con la differenza che quella aveva come perno l’Europa (anche in quei tempi antichissimi la Cina faceva partita a sé), mentre la nuova età dell’oro farebbe perno sull’America. Niente più “guerre preventive” come preconizzava la malaugurata dottrina di Bush figlio, ma miraggi infiniti di business, accordi contrattuali (non per niente deal in inglese si usa indifferentemente per un compromesso di pace come per un compromesso commerciale).

La promessa è: bottino per tutti. A una sola condizione: che siano gli altri a metterci i soldi e non si debba mettere mano nelle tasche dei contribuenti americani. I trionfi degli antichi romani non erano solo esibizioni di gloria, grande e teatrale spettacolo per le masse. Erano un modo per esibire, a beneficio di immagine del trionfatore, guadagni immediati e guadagni futuri. Gloria e immagine non erano fini a sé stessi. Servivano a trarre vantaggi nella competizione per il potere a Roma. Non tutto finiva nelle casse dell’erario pubblico. Parte delle spolia veniva distribuita direttamente ai legionari vincitori sul campo. Quel che i soldati erano riusciti ad arraffare col saccheggio, compresi i sopravvissuti nella popolazione nemica (uomini, donne, bambini, solo i vecchi valevano poco) veniva venduto subito alle carovane di mercanti e affaristi che accompagnavano ogni spedizione.

Gli storici concordano in genere sul fatto che il comandante avesse molta discrezionalità sul che fare del malloppo. Rischiava di scontentare i soldati se lesinava sulla loro parte. Rischiava di finire sotto processo per peculatum se intascava troppo lui (e soprattutto se aveva troppi nemici politici a Roma). Ma è assodato che gran parte del bottino finiva nelle tasche del comandante. L’arricchimento crebbe in modo esponenziale da una campagna all’altra. Si stima che la fortuna accumulata da Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, leggendario per la sua clemenza verso i vinti, ammontasse a 5 milioni di sesterzi. Non gli bastò ad evitare di finire sotto processo, lui e altri della sua potente famiglia. La fortuna del Licinio Crasso che fu console 60 anni dopo fu valutata a 100 milioni. Un altro Crasso, Marco Licinio, il soppressore della rivolta di Spartaco, vantava il possesso di 200 milioni in sole terre, a cui andrebbero aggiunti schiavi, miniere, crediti finanziari. Dice Plinio che Crasso sosteneva che uno non può dirsi ricco se col suo reddito annuo non riesce a pagarsi almeno una legione. E così via in crescendo. Fino ai comandanti che furono in grado di pagarsi gli eserciti di tasca propria, fino ad Ottaviano, erede di Giulio Cesare, che diventa Augusto sgominando le fazioni rivali con un esercito personale da lui pagato (exercitum privato consilio et privata impensa).
Alla rapina diretta si aggiungevano le riparazioni di guerra e le elargizioni volontarie da parte dei re sconfitti e di quelli bisognosi di protezione. Tanto per fare un solo esempio, uno dei luogotenenti di Pompeo, Marco Emilio Scauro, racimolò personalmente, nella Giudea lacerata dalla guerra civile, 17 milioni di sesterzi solo grazie ai regali da parte di tutte le parti in causa per garantirsi la protezione delle armi romane. Il suo capo, nelle guerre in Siria e contro la Persia, si era intascato una somma astronomica. Salvo poi venire sconfitto da uno che era incomparabilmente più bravo di lui a farsi propaganda, Giulio Cesare. La regola comunque era far guerra  per quanto possibile a spese pubbliche, spartendosene i profitti in modo privato. Era giudicato anche allora un tantino immorale. Ma così facevano tutti, compresi moralisti conservatori come il vecchio Catone o moralizzatori colti come Cicerone. Fatto sta però che, in un modo o l’altro, questo sistema finiva per beneficare anche l’economia, le tasche dei più, degli aristocratici in perenne competizione tra di loro, ma anche quelle dei proletari. Se ne giovarono, per incredibile che ci appaia, addirittura pure i conti pubblici. Al punto che con il ricavato in rapina e indennità dai vinti dopo le guerre in Grecia e in Medio oriente, Roma fu in grado di abolire ad un certo punto del tutto il tributum, cioè la tassazione diretta dei suoi cittadini. A realizzare insomma il sogno di Trump. 

Far l’America grande di nuovo, ma con i soldi degli altri, assume, nella visione enunciata da Trump, una dimensione planetaria, che va ben oltre il Medio oriente. Gli arabi e le altre nazioni musulmane sono ricchi, paghino loro, il succo del discorso in cui preannunciava l’imminente incontro a Sharm el-Sheik, con “le più potenti, le più ricche nazioni, really, davvero, nel mondo”. C’era il turco Erdogan, c’erano tutti gli sceicchi del petrolio, c’era il padrone di casa al Sisi, ora dato come manager in pectore al posto di Tony Blair, mancava solo l’Arabia saudita, rappresentata solo da una controfigura del principe. “Le nazioni più ricche, le nazioni più potenti, tremendous (che in inglese significa non solo tremende ma anche grandi, eccezionali), guidate in molti casi da persone tremendous, gente che non necessariamente approvo, ma persone incredibili che ci hanno aiutato a rendere possibile tutto ciò [la pace]”.  In soffitta non solo le guerre preventive ma anche la vecchia discriminante democrazia/tirannia (se mai c’era stata davvero). Il metodo per risolvere non solo la questione Gaza, ma anche tutto il resto, è un Board of peace, un consiglio di amministrazione planetario. “Una bella denominazione, davvero. Non credete? Molti hanno chiesto che fossi io a presiederlo, ma non so, non ho tempo…”. Mano tesa, invito a prendere parte al gran banchetto, a tutti, anche i peggiori dittatori. Anche Iran. Anche Putin. Purché caccino i soldi. O concedano a Cesare trionfante quel che è dovuto a Cesare. Profits first. Tutti ad applaudirlo, anche i pagatori europei, presenti nel ruolo di comparse in seconda fila. Per i grandi princìpi, i grandi valori, si vedrà. 

 

Intanto, Trump, mago del deal affaristico, si è già servito porzioni abbondanti per sé, i propri parenti, gli amici, i clienti. Le sue fortune personali non sono affidate a un trust cieco, come d’uso, ma ai figli. Il genero Jared Kushner ha le entrature e le relazioni giuste. Aveva già dato prova dei suoi talenti con gli accordi di Abramo, che avevano consentito a Israele di allacciare rapporti diplomatici con diversi Paesi arabi del Golfo. L’Arabia saudita ha investito miliardi di dollari nei suoi fondi personali. Non vedeva l’ora che si mettesse fine alla guerra a Gaza per poter investire nella ricostruzione. Steve Witkoff, l’altro grande artefice dei negoziati con Hamas per il cessate il fuoco, platealmente lodato dal presidente come “il Kissinger d’Arabia” aveva importanti rapporti di affari con il Qatar già dai tempi della prima amministrazione Trump. Suo figlio Alex sta raccogliendo miliardi per investimenti immobiliari nella regione. Un altro dei suoi figli è socio di uno dei figli di Trump, Eric, in lucrosissime operazioni sulle criptovalute, sostenute a suon di miliardi dagli Emirati. Sono da tempo in corso trattative per la costruzione di Trump Towers a Dubai e a Gedda, e un complesso alberghiero di extra lusso in Qatar. 

Il primo viaggio di Trump nel suo nuovo mandato era stato proprio in Medio oriente, dove aveva stretto accordi economici con l’Arabia saudita e tutti gli altri del Golfo. In Europa invece aveva mandato il vice Vance, a dare degli scrocconi agli alleati. Trump ci tiene ai soci in affari che non lesinano. E non solo perché gli fanno regali appariscenti, tipo il jumbo che dovrebbe servirgli da Air Force One. Con loro mantiene scrupolosamente le promesse di protezione. “Non toccatemi il Qatar” era stato uno degli argomenti con cui aveva torto il braccio a Netanyahu, spingendolo poi a dire sì al suo piano di pace per Gaza. Dandogli poi in premio una buona parola per i suoi guai giudiziari. Mezzo toscano, una medaglia e una buona parola non si negano a nessuno, avrebbe detto Vittorio Emanuele II. 

Così come il punto di svolta per l’Ucraina, dopo la invereconda strapazzata a Zelensky nello studio ovale, era stata la conclusione dell’accordo per le risorse minerarie. C’è un formidabile lavorio, una frenetica corsa agli affari, all’accaparramento di capitali e risorse. Sono essenziali per l’intelligenza artificiale, i cellulari, satelliti, i sistemi guida dei caccia-bombardieri, e anche per i missili Tomahawk che l’Ucraina chiede all’America. Anche il Golfo investe sulle terre rare, c’è chi dice sarà il loro prossimo petrolio. Il Pakistan dell’uomo forte Asim Munir corteggia Trump con concessioni di minerali pregiati, e pure di un nuovo porto sul Mare arabico, a un centinaio di chilometri da quello già concesso alla Cina. Sempre meglio della guerra, se serve davvero ad evitare, non ad incoraggiare la guerra. Se funzionasse.

Si è detto: “opportunismo realista”, “capacità di mettere insieme una coalizione di (di Stati arabi e islamici) contro le pretese dei fantasisti”. Forse sarebbe più esatto dire Coalizione di affari contro le coalizioni e le contrapposizioni di potenza. Lenin aveva detto: “Il comunismo è i soviet più l’elettrificazione della Russia”. Nella sua allocuzione alla Knesset Trump ha vantato le prodezze militari messe in campo contro l’Iran, contro Hezbollah e contro Hamas, con annessa celebrazione lirica dei bombardieri B2. “Gli Stati Uniti hanno al momento la forza militare più grande e potente nella storia del mondo. Posso dirvi che abbiamo armi che nessuno prima ha nemmeno sognato. Anche se spero di non doverle mai usare”. La forza, la spada, su uno dei piatti della bilancia, l’oro, la prospettiva di affari favolosi sull’altro. Ma l’accento, il carico da novanta, è decisamente sull’oro, il contante, ora e subito.

Purché a tirarlo fuori siano gli altri. “Voi sapete che ora, grazie ai (miei) dazi, gli Stati uniti sono di gran lunga il paese più ricco al mondo”. La cosa che più gli preme è che a pagare siano gli altri, non i contribuenti americani grazie al cui voto è stato eletto presidente. Con l’Europa si era rabbonito, sia pure solo in parte, solo dopo che avevano accettato di portare al 5 per cento la loro quota di spese militari. Uno spettro terribile minaccia l’intero Occidente: non più il comunismo ma una crisi fiscale senza precedenti. Non era mai successo, in tutta la storia mondiale, che il debito pubblico dei paesi più ricchi superasse il 110 per cento del loro prodotto lordo. Tra le cause: il Covid, le minacce internazionali, il generoso ma disperato tentativo di fermare la catastrofe climatica, l’invecchiamento della popolazione. Il rimedio: o aumenti le tasse o tagli i servizi (e, in entrambi i casi, perdi le elezioni). Guai comuni, ma senza gaudio. Si stima che anche l’America, che pure ha avuto, grazie agli immigrati, meno invecchiamento e crescita più sostenuta dell’Europa e del Giappone, per cavarsi dall’impaccio dovrebbe aumentare le tasse o tagliare le spese a ritmo del 15 per cento all’anno. Ma a Trump degli altri non importa un fico secco. Paghino loro, purché l’America se la cavi, è la sua idea fissa. E’ uno che va al sodo. Cioè al soldo.

Una vecchissima storia: pace o guerra pari sono, purché siano altri a pagare. Gli antichi romani furono maestri nel destreggiarsi in guerre pubbliche e profitti privati e nel dare spettacolarità propagandistica alle loro vittorie militari. I vincitori spendevano somme inverosimili in archi di trionfo, parate, giochi, ma anche in investimenti immobiliari, grandi opere. Sono ora in rovina, ma la loro magnificenza resta intramontabile. Proverbiale il detto “vendere il Colosseo”. Trump riesce a vendere anche le rovine di Gaza, e vantare trionfalmente vittorie e paci che sono di là da venire.  

Tutto quel che vorreste sapere sui trionfi antichi in Spoils in the Roman Republic: Boon and Bane (Le spoglie nella Repubblica romana: benefici e disgrazia), a cura di Marian Helm e Saskia Roselaar (Franz Steiner Verlag, 2023). Molto di quello che vorreste sapere sulle conseguenze finanziarie dei trionfi e delle regalie, di Roma fatta grande a spese altrui, in Power and Public Finance at Rome, 264-49 BCE di James Tan (Oxford University Press, 2017). Il magistrale The Imperial Republic, Rome and the Mediterranean 290 to 146 BC di Nathan Rosenstein (Edinburgh University Press, 2012) per le intricatissime vicende della potenze greche e asiatiche cui, superata la gran paura cartaginese, finirono per fare la guerra e svuotare gli immensi tesori, dopo che sino a poco prima li avevano fregiati del titolo di alleati, amici populi romani.  I giornali e le tv su quel che l’attualità quotidiana ci azzecca (o no) con storie vecchie di millenni.

Chi non lo sa? Gli antichi romani conquistarono il mondo a loro conosciuto (la Cina è un altro paio di maniche). Diventarono padroni di tutte le rotte marittime e vie terrestri. Costruirono Roma e anche le province a più non posso. Sfamarono plebe ed eserciti col grano dalla Sicilia e dall’Egitto. Li armarono con le miniere spagnole (le terre rare di quei tempi). Ma di trionfo in trionfo, di conquista in conquista, di arricchimento in arricchimento, finirono nella pagina più atroce della loro storia: le guerre civili. La posta non erano tanto le conquiste all’estero quanto il potere in casa, a Roma. Giulio Cesare triumphator oltre al bottino esibiva nelle sue pompae anche dipinti sui suoi avversari politici romani costretti a suicidarsi. 

Guarda caso, l’altra vera ossessione di Trump, accanto al business, è liberarsi dagli avversari domestici, da chi non è d’accordo con lui (a cominciare dai non allineati nel suo partito repubblicano), da chi gli dà fastidio, a cominciare da giudici e giornalisti sgraditi. Colpisce che anche a Sharm-el-Sheik, dove ha avuto una buona parola per tutti, compresi i più impresentabili, se la sia presa rabbiosamente con i suoi predecessori alla Casa bianca, in modo particolare Obama e Biden. Li ha trattati peggio dell’Iran e di Hamas, a cui ora vorrebbe addirittura affidare l’ordine pubblico a Gaza. Il nemico è sempre quello interno, quello che gli contende il potere in casa. Ho avuto un incubo l’altra notte. Trump era riuscito a candidarsi per la terza volta. Questo non sarebbe affatto sorprendente, gli basterebbe sostenere che il divieto di superare due mandati riguarda i mandati consecutivi, i giudici della Corte suprema da lui nominati avranno un occhio di riguardo. L’incubo era un altro: che Trump aveva perso le elezioni e non riconosceva la sconfitta, trascinando così dritto gli Stati Uniti in una guerra civile. 
 

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