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Albanesi all'Onu. Viaggio fra relatori e relatrici speciali, come la pasionaria italiana
Accademici e relatori speciali dell’e Nazioni Unite, spesso formati nelle università sovvenzionate da regimi autocratici, contribuiscono alla diffusione di una narrazione radicale e antioccidentale nelle Nazioni Unite. Ecco chi sono
In tasca hanno il tesserino dell’Onu e un titolo accademico in “studi critici” e “diritto internazionale” ottenuto in qualche prestigiosa università pesantemente sovvenzionata dalle peggiori dittature del pianeta. E’ il “relatore speciale”, le albanesi del Palazzo di vetro. Il primo apparve nei primi giorni della Rivoluzione iraniana del 1979 e fu uno degli utili idioti dell’ayatollah Khomeini. Dopo aver incontrato il futuro tiranno a Parigi, un professore di Princeton di nome Richard Falk scrisse un editoriale sul New York Times elogiandolo come un esempio da seguire per il Terzo Mondo. “Credo che una delle eredità di Khomeini sia stata quella di dare priorità assoluta alla lotta palestinese”, ha dichiarato Falk molti anni dopo. Questo sostenitore dell’Iran e della “lotta palestinese” (con ogni mezzo necessario, visto che Falk ha paragonato Hamas ai partigiani durante la Seconda guerra mondiale), sarebbe stato per sei anni relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Palestina (Israele è l’unica nazione, ovviamente, ad avere un relatore speciale permanente dedicato a indagare su di essa). Anche la moglie di Falk, l’avvocato turco Hilal Elver, professoressa all’Università della California, è stata relatrice speciale per il cibo all’Onu.
Il terzomondismo (tendenza familismo) è stato istituzionalizzato in una falsa narrazione dominante e pervasiva, che si è infiltrata in tutti gli organi delle Nazioni Unite e delle corti internazionali, attraverso risoluzioni e documenti elaborati nell’ambito dei mandati voluti da un “gruppo consultivo” composto da cinque ambasciatori per ciascun gruppo regionale delle Nazioni Unite e che detiene la maggiore influenza nella selezione dei “relatori speciali” delle Nazioni Unite. I membri del corpo professionale delle Nazioni Unite riflettono l’indottrinamento postcoloniale che ha travolto il mondo accademico, i media e il dibattito in generale. Quasi tutti i nominati dalle Nazioni Unite sono accademici attivisti impegnati in campi di studio radicali che considerano Israele un’entità colonialista, imperialista e razzista. Si chiama “Third World Approaches to International Law” e fu istituito nel 1996 presso la Harvard Law School (c’è anche una rivista accademica). In pratica il “diritto internazionale” infarcito di Edward Said e Frantz Fanon.
Il primo fu Richard Falk, grande fan di Khomeini e poi della lotta palestinese (anche sua moglie è stata relatrice speciale all’Onu)
Francesca Albanese, star del nuovo progressismo, è uscita da una delle università specializzate in questi studi critici, la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. L’8 ottobre 2023, le associazioni palestinesi di questa università hanno espresso sostegno sui social per l’attacco di Hamas: una “lotta eroica” dei “martiri” contro “coloni fascisti e criminali”. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sul razzismo, Tendayi Achiume, insegna all’Università della California e ha fatto campagna per le sanzioni a Israele. Molte di queste università sono fra i principali beneficiari delle donazioni del Qatar al mondo accademico, dai milioni di dollari a Georgetown ai 295 milioni alla Columbia (oltre alle donazioni della Cina). Nel 2015, il Qatar ha donato venti milioni alla School of International and Public Affairs della Columbia.
L’ex funzionaria della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, Agnès Callamard, è docente alla Columbia e da relatrice dell’Onu ha definito “illegale” l’uccisione di Qassem Suleimani, architetto delle operazioni terroristiche iraniane. Oggi Callamard è segretaria di Amnesty International, la gloriosa ong che vinse il Nobel per la Pace nel 1977 e trasformata in una specie di processo permanente a Israele (a due anni dal 7 ottobre, la ong deve ancora pubblicare il suo rapporto sui crimini di Hamas). A capo della Commissione indipendente d’inchiesta sui territori palestinesi occupati e Gerusalemme est, istituita dall’Onu, c’è Navi Pillay, “eminente giurista” sudafricana che nel 2020 ha firmato una petizione che chiede sanzioni contro “l’Israele dell’apartheid” e protagonista della famigerata conferenza antisraeliana dell’Onu a Durban. Il predecessore di Falk era un altro sudafricano, John Dugard, anche lui ossessionato da Israele (sudafricana è anche la causa intentata contro Israele alla Corte penale dell’Aia). Un collega di commissione di Pillay invece è Miloon Kothari, un indiano uscito anche lui dalla Columbia University e che ha detto: “Siamo sconfortati dai social che sono controllati in gran parte dalla lobby ebraica”. Kothari, che si è poi pentito dei commenti sugli ebrei, si è detto contrario al fatto che Israele sia membro dell’Onu. Il terzo, Chris Sidoti, è un australiano che insegna nelle università del suo paese (diventato nel frattempo uno dei più ostili allo stato ebraico).
Gran parte di questi relatori si è formata e insegna alla Columbia University, dal 7 ottobre centro delle manifestazioni pro Pal
“Fuck him”: così Tlaleng Mofokeng, relatrice speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla salute uscita da Georgetown, si è rivolta a Benjamin Netanyahu. Balakrishnan Rajagopal è relatore speciale sul diritto all’alloggio, nonché accademico alla Harvard Law School. E la relatrice per la protezione del diritto alla libertà di opinione, la bengalese Irene Khan, che da segretaria di Amnesty ebbe a definire Guantanamo “il Gulag del nostro tempo”, ha insegnato a New York e in Inghilterra. Si arriva ad Alfred De Zayas, già esperto dell’Onu per la “promozione di un ordine democratico ed equo” (formula orwelliana che non significa niente, un po’ come la “democrazia popolare” di sovietica memoria), che quando ha visitato il Venezuela per valutare il suo stato sociale ed economico ha detto di non ritenere che i problemi del paese fossero una crisi umanitaria. “La cosiddetta crisi umanitaria non esiste in Venezuela” ha detto De Zayas, il quale ha poi preso cattedra alla Scuola di diplomazia di Ginevra e si è messo a chiedere la cacciata di Israele dall’Onu.
D’altronde, il relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, Olivier De Schutter, ha indagato sulla fame in... Canada, che dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni dell’Onu. Ma le opinioni di De Schutter non sorprendono, dato che Cuba ha sponsorizzato il suo “mandato indipendente”. E De Schutter, professore alla Columbia Law School, non è la prima figura controversa a ricoprire il mandato alimentare: il suo predecessore, il sociologo svizzero Jean Ziegler, ha contribuito a istituire il “Premio per i diritti umani Muammar Gheddafi” (assegnato a un caro amico di Ziegler, il filosofo negazionista e filo iraniano Roger Garaudy, e a Louis Farrakhan, il leader della “Nazione dell’islam”).
Alla morte di Hugo Chávez, Michelle Bachelet lo ha elogiato per aver “sradicato la povertà e generato una vita migliore per tutti”
Ziegler negli anni Sessanta inizia la carriera all’Onu come inviato in Congo. I giornali lo avrebbero immortalato in molte posizioni guerresche. Nel 1976 brandisce un kalashnikov assieme ai miliziani del Fronte di liberazione eritreo. Tre anni dopo è in cima a un carro armato americano ad Hanoi. Deputato del Partito socialdemocratico svizzero, negli anni Settanta e Ottanta Ziegler scrisse opuscoli terzomondisti. Ammiratore di Castro e del Nicaragua sandinista, dopo la caduta del Muro si è convinto che l’unico argine alla “barbarie capitalista” non è più il socialismo, ma la “globalizzazione della giustizia”. Nel 2002 fece visita a Saddam Hussein e nel 2006, poco prima della guerra in Libano, fece una dichiarazione in cui diceva di “rifiutarsi di considerare Hezbollah una organizzazione terroristica, ritenendola invece un movimento di resistenza nazionale”.
Così L’Express francese racconta il viaggio di Michelle Bachelet di sei giorni in Cina, la prima per un Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, dove l’ex presidente del Cile ha compiuto un tour nella regione dove gli uiguri sono sottoposti a un regime spaventoso di repressione culturale e demografica: “Senza arrivare a paragonare questa visita a quella di Édouard Daladier in Unione Sovietica nell’estate del 1933, durante la quale il leader del Partito radicale francese vide in Ucraina ‘un giardino in piena produzione’ quando in realtà la popolazione era affamata, la visita dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani nella regione cinese dello Xinjiang si trasforma in polemica”. Il New York Times racconta come il regime cinese abbia usato la visita di Bachelet a fini di propaganda. Durante la sua visita a Cuba, all’inizio del 2018, la Bachelet è stata criticata dagli attivisti per i diritti umani per aver incontrato Raúl Castro snobbando i membri dell’opposizione pacifica di Cuba. Non solo. Alla richiesta della leader dell’opposizione, Rosa María Payá, di incontrare i dissidenti per i diritti umani la Bachelet ha risposto picche, anzi, non ha proprio risposto. Anche la blogger cubana Yoani Sanchez ha puntato il dito contro Bachelet imputandole una “vicinanza all’Avana segnata da una nostalgia ideologica che offusca la sua visione e la sua capacità di riconoscere la mancanza di diritti che segnano la vita dei cubani” e aggiungendo che “dalla sua bocca non c’è mai stata alcuna condanna della repressione politica condotta sistematicamente da Raúl Castro, anche quando le vittime sono donne”. Quando morì Fidel Castro la Bachelet, che voleva mandare in Italia gli ispettori dell’Onu per indagare sul razzismo, lo definì “un leader per la dignità e la giustizia sociale a Cuba e in America Latina”. Quando morì Hugo Chávez, Michelle Bachelet lo ricordò come un “grande amico”, lodandolo “per sradicare la povertà, generare una vita migliore per tutti e il suo profondo amore per l’America Latina”.
All’università londinese di Francesca Albanese si processano Socrate, Platone, Kant e altri filosofi in nome della “decolonizzazione”
Escono tutti dalle stesse università trasformate in centri di indottrinamento, sono arruolati all’Onu come “relatori speciali”, spesso da lì passano a guidare qualche ong dai budget milionari e a volte, come nel caso di Bachelet, tornano a insegnare alla Columbia. Come Fionnuala Ní Aolái, relatrice speciale dell’Onu per la promozione dei diritti umani e docente della Columbia. Ross Douthat sul New York Times racconta cosa è diventata la Columbia: “Nelle letture del XX secolo del curriculum della Columbia, l’èra dei totalitarismi semplicemente svanisce, lasciando la decolonizzazione come l’unico grande dramma politico del recente passato. Non c’è Orwell, né Solzhenitsyn; vengono assegnati i saggi di Hannah Arendt sulla guerra del Vietnam e le proteste studentesche in America, ma non ‘Le origini del totalitarismo’ o ‘Eichmann a Gerusalemme’. Il conservatorismo di qualsiasi tipo è naturalmente vietato. Il cambiamento climatico incombe su tutto, ma ci si aspetta che l’attivismo per l’ambiente si fonda in qualche modo con l’azione anticoloniale e antirazzista. Israele diventa il capro espiatorio per i peccati dei defunti imperi europei”.
Nel 2017 gli studenti della famosa Scuola di studi orientali di Londra, dove ha studiato Francesca Albanese, chiesero addirittura di togliere Platone e Kant, Aristotele e Socrate dal curriculum. Hanno una grave “colpa”, questi filosofi: sono bianchi ed esponenti del “colonialismo” che andrebbe espulso dalle istituzioni accademiche. “They Kant be serious”, titolò il pugnace Daily Mail sull’università che voleva proibire il filosofo tedesco. Facevano sul serio. Poi gli accademici della Soas hanno messo da parte filosofi come Aristotele e Socrate a favore della “decolonizzazione”, sbarazzandosi degli “uomini bianchi morti” in un nuovo toolkit per scuole e università prodotto dalla Soas. Vengono raccomandati al loro posto una femminista indiana-americana, una “teorica del genere” nigeriana e un’esperta zen giapponese. Si tratta della prima guida ufficiale prodotta dagli accademici della Soas volta a “decolonizzare la filosofia”. Intanto alla Soas è sorta la “zona libera” da Israele. Se lo Stato ebraico non esistesse, le Nazioni Unite e molte università dovrebbero chiudere. Non saprebbero più su chi relazionare e attaccare.