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Medio Oriente

Hamas riconsegna il corpo del beduino al Atrash. La ferocia del 7 ottobre senza distinzione

Fiammetta Martegani

Il sergente maggiore dell'esercito di Tel Aviv è solo uno tra i tanti arabi israeliani che sono stati uccisi o rapiti nell'attacco terroristico del 2023. Una storia che ricorda alla società israeliana quanto le vittime del pogrom appartengano a ogni gruppo etnico e religioso

Mentre a Washington si discute su come procedere per il potenziale avanzamento della fase due, temporaneamente arenato poiché Hamas sta rallentando il ritorno degli ostaggi uccisi il 7 ottobre o durante la prigionia, sono ancora 19 i corpi dispersi nella Striscia. Mercoledì sono state restituite le salme di altri due dei rapiti defunti: Inbar Hayyman, 27 anni, e Mohammad al Atrash, 39, sergente maggiore dell’esercito israeliano, ucciso il 7 ottobre mentre cercava di difendere i kibbutz attaccati dal gruppo terrorista – il suo corpo è stato portato a Gaza, assieme a molti altri cadaveri, con lo scopo di venire utilizzato come merce di scambio, proprio come Hamas sta facendo in queste ore.

 

Al Atrash è solo uno tra i tanti arabi israeliani che sono stati uccisi o rapiti il 7 ottobre. Originario della comunità beduina di Sa’wa, nel deserto del Negev, serviva nella divisione di Gaza dell’Idf  come “Tracker” della brigata settentrionale: un ruolo spesso affidato ai beduini, grazie alla loro preziosa capacità di orientamento e osservazione del terreno nel deserto. Queste competenze lo avevano reso una figura di primo piano sia nel suo villaggio che nell’unità in cui prestava servizio. Per questo, per mesi, si era sperato, grazie alle sue incredibili abilità di sopravvivenza e alla conoscenza dell’arabo e dell’Islam, che fosse ancora vivo nella Striscia. Solo nel giugno 2024 la famiglia ha ricevuto la conferma dall’esercito che era stato ucciso durante i combattimenti.

 

Va ricordato come i “tracciatori” beduini svolgono compiti altamente specializzati: ricognizione, individuazione di movimenti nemici, guida notturna e navigazione in territori difficili, unendo la conoscenza tradizionale del deserto alle tecniche militari moderne, e svologendo anche un importante ruolo di bridging tra le comunità beduine e lo stato d’Israele.
Al Atrash incarnava tutte queste caratteristiche: simbolo del grande contributo delle minoranze beduine alla sicurezza del paese. Molte di queste sono state direttamente colpite dall’attacco del 7 ottobre da parte del gruppo terrorista che, nella sua efferatezza, non ha fatto alcuna distinzione tra cristiani, musulmani, drusi e beduini: alcuni erano soldati di pattuglia lungo il confine. Altri, semplicemente, abitavano nelle diverse comunità miste che convivono pacificamente nel sud del paese. Nel corso di questi due anni di conflitto tutte le famiglie di queste vittime hanno vissuto la stessa angoscia di quelle ebraiche: mesi di silenzio, notizie frammentarie, attese infinite per ricevere un segno di vita o aspettando il ritorno dei resti dei propri cari. 

 

Per la comunità beduina, la restituzione del corpo di Mohammad rappresenta anche il riconoscimento del sacrificio dei propri figli, che spesso servono nell’esercito israeliano. Così, per la società israeliana, la storia di al Atrash ricorda quanto le vittime del 7 ottobre appartengano a ogni gruppo etnico e religioso, e che il dolore condiviso oltrepassa ogni divisione di natura politica o religiosa, riflettendo l’elevato costo umano e la complessità di un conflitto di natura, soprattutto, regionale.

 

Al Atrash, padre di tredici figli, è stata una figura centrale nella società beduina, e il ritorno del suo corpo, dopo oltre due anni, è stato accolto con grande affetto da israeliani di tutte le comunità. Prima di salutarlo per l’ultima volta Salem al Atrash, suo fratello, ha chiesto allo stato di Israele di fare tutto il possibile per riportare indietro tutti gli ostaggi ancora trattenuti nell’enclave: “E’ stato così difficile, in questi due anni, non avere una tomba su cui poter riconciliarsi. Ogni volta che c’era un un evento familiare, sentivo sempre che mancava qualcosa: non solo la presenza di Mohammad, ma quella di tutti gli i rapiti: vivi e morti. Senza il ritorno di tutti loro, la nostra vita non sarà mai completa. Viviamo terrorizzati che un giorno Hamas annunci di non sapere dove sono gli altri ostaggi, come sta già facendo. Le altre famiglie i cui cari sono ancora a Gaza, sono, per tutti gli israeliani, come fratelli e sorelle. Dobbiamo riportarli tutti a casa, per poter ricominciare a vivere e, solo allora, continuare le negoziazioni per un processo di pace”.