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La gioia e il lutto lottano e si sostengono nella giornata in cui Israele inizia a uscire dal 7 ottobre
Israele unito riabbraccia gli ostaggi, saranno loro a curare il paese. Ventiquattro nomi, venti vivi e quattro morti, raccontano la fine di una lunga notte e l’inizio di un nuovo capitolo della storia di Israele
Tel Aviv, dalla nostra inviata. Il trionfo della gioia e la rabbia del lutto si incontrano, convivono, si giustificano e si sostengono in questo 13 ottobre che rimarrà nella storia di Israele. Una parte del paese vive, un’altra non si rialza. Si festeggia, si balla, si canta per chi è finalmente libero. Si sente il cuore che pesa per chi torna in una bara e per quei corpi ai quali viene ancora negata la dignità della sepoltura. Israele festeggia, una parte del paese non può far parte di questa gioia e il contrasto di un sentimento esplosivo che sa di essere il risultato di una sofferenza enorme è già presente all’arrivo dell’alba, che a Tel Aviv segna la fine della veglia di tutte le persone che si sono radunate in Piazza degli ostaggi dalle quattro per aspettare il ritorno dei quarantotto ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. Dopo le prime luci del nuovo giorno, il tempo della veglia fa spazio a quello di un’attesa scandita da un copione che in Israele già conoscono: le macchine della Croce Rossa devono raggiungere il punto concordato con Hamas dentro la Striscia per recuperare gli ostaggi, che poi saranno accompagnati fino a una base dell’esercito israeliano a Gaza, e da lì condotti dalle famiglie che li attendono nella base di Re’im, in Israele. Alle madri, ai padri, ai fratelli e alle sorelle dei rapiti è stato detto di raggiungere Re’im per le sette e mezza. Molte cose in queste tre fasi possono andare storte. Hamas, secondo l’accordo raggiunto con Israele, non può organizzare nessuna celebrazione, gli ostaggi devono essere rilasciati in silenzio, senza palchi, senza pubblico.
Delle tre condizioni soltanto la seconda viene pienamente soddisfatta. La prima liberazione è prevista per le otto del mattino, pochi minuti dopo, la Croce Rossa annuncia che i primi a uscire per sempre dal tunnel di Hamas sono sette: Alon Ohel, Eitan Mor, Omri Miran, i gemelli Gali e Ziv Berman e Guy Gilboa-Dalal. Per gli altri tredici ostaggi vivi, Hamas ha ancora un’ultima tortura: organizza delle videochiamate con le famiglie che vedono comparire i volti scomparsi da oltre due anni con vicino i terroristi dal volto coperto. L’intenzione del gruppo è di usare queste immagini per propaganda, proprio come fece il 7 ottobre del 2023 con le foto e i video del massacro. Hamas registra le chiamate, con le facce smunte degli ostaggi e le lacrime dei genitori. È una cerimonia in piccolo, nulla di comparabile con i palchi montati a febbraio per esporre gli ostaggi rilasciati durante il precedente cessate il fuoco, su cui i rapiti venivano costretti a ringraziare gli aguzzini, ma è l’inizio delle violazioni. I primi sette ostaggi vengono liberati nel nord della Striscia, gli altri tredici a sud: anche Bar Kuperstein, Evyatar David, Yosef Chaim Ohana, Segev Kalfon, Avinatan Or, Elkana Bohbot, Maksim Harkin, Nimrod Cohen, Matan Zangauker, David e Ariel Cunio, Ethan Horn e Rom Breslavski sono vivi, camminano, portano con loro la storia di due anni trascorsi nei tunnel, di dipendenza dagli uomini che li hanno trascinati via dalle loro vite, di notizie false. Hamas ha tentato di usarli come marionette, armi da guerra psicologica. I venti hanno vissuto nella paura di essere dimenticati, di essere uccisi. Hanno vissuto sapendo di dover dipendere da chi per loro prova un odio sconfinato. La sopravvivenza degli ostaggi che fanno ritorno in Israele è il risultato di una ribellione alla brutalità con cui Hamas il 7 ottobre voleva paralizzare Israele per sempre.
Le prime immagini dei venti vivi iniziano a essere proiettate sullo schermo in Kikar HaChatufim, la piazza a loro dedicata che gli israeliani speranzosi iniziano a chiamare Kikar HaShivim, la Piazza di chi torna, quando il presidente americano Donald Trump è ormai atterrato in Israele. A ogni nome, la piazza si solleva, sventola le bandiere, applaude. Si piange insieme, ci si abbraccia fra sconosciuti, ma in questo spazio di cemento trasformato da due anni in un luogo della memoria non esistono davvero persone sconosciute. I volti della sopravvivenza sorridono, gli occhi gonfi di paura e pianto non riescono ancora a lasciar uscire i segnali della gioia, semmai un timido sollievo: dal tunnel di Hamas non si esce in un giorno. Quando gli elicotteri portano i venti nei tre ospedali che da giorni sono pronti ad accoglierli, passano sopra Piazza degli ostaggi: le bandiere israeliane e americane si agitano con più frenesia quasi ad accompagnare le grida fortissime di saluto che sperano di oltrepassare la distanza e arrivare fino ai sopravvissuti. Quando alcuni ostaggi poi compaiono in video, la piazza impazzisce, saluta, esplode di felicità. Non è soltanto la piazza a partecipare alla liberazione dei venti che è la liberazione di un intero paese, tutta la città balla, le musiche da una strada all’altra si sovrappongono, compongono una melodia che è la colonna sonora di questa giornata e non sarà mai più replicabile: le sue note esistono soltanto oggi, pezzo unico in un giorno unico della storia nazionale. I salvati dai tunnel di Gaza vengono accolti come fossero dei salvatori, coloro che cureranno il paese dal trauma del 7 ottobre, della guerra, della condanna internazionale, della politica interna. Sono le guide che permetteranno di uscire dal giorno che dura da due anni esatti, secondo il calendario ebraico.
La musica in Piazza degli ostaggi in serata via via si spegne, Hamas è venuto meno a uno dei punti dell’accordo e ha comunicato che consegnerà alla Croce Rossa soltanto i corpi di quattro ostaggi, non di tutti i ventotto: Guy Illouz, Yossi Sharabi, Bipin Joshi e Daniel Peretz. I terroristi sostengono di non poter sapere dove si trovino tutti i morti, ma quattro bare sono al di sotto delle aspettative. I sentimenti di questa giornata in Israele sono granelli di una clessidra, che si muovono costantemente dall’ampolla della gioia a quella del lutto. I parenti dei morti sono esclusi dalla frenesia nazionale che ha segnato l’inizio della giornata, i corpi di chi non torna sono ostaggio due volte. Il contatore, che dall’inizio della guerra segna i giorni della prigionia, continua a misurare il tempo e lo farà fino a quando l’ultimo ostaggio morto non sarà tornato in Israele.


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