Così i giovani del sud globale sono passati dallo schermo degli smartphone alla piazza

Priscilla Ruggiero

Nepal, Indonesia, Filippine, Madagascar, Marocco, Perù. Perché parlare di "Generazione Z" è riduttivo quando l'unico fattore "Z" è l'organizzazione del dissenso online. Il grido di una generazione stanca di essere definita apatica e dipendente dai social media

Tra i motivi delle proteste in Nepal che hanno portato lo scorso settembre il primo ministro alle dimissioni c’è  la foto di un giovane rampollo accanto a un albero di Natale costruito con pacchetti firmati Louis Vuitton, Cartier e Gucci. I giovani nepalesi, stanchi della corruzione che imperversa nel paese, hanno assegnato a questi figli dell’élite i soprannomi: Nepo Kid, o Nepo Baby, l’hashtag è diventato virale sui social media per denunciare la vita sfarzosa di pochissimi giovani privilegiati, simbolo di un sistema politico corrotto e disfunzionale. Siamo stanchi, hanno scritto sul web, e l’insofferenza è velocemente passata dallo schermo alla piazza quando il ministero delle Comunicazioni di Kathmandu ha annunciato la chiusura delle principali piattaforme di social network, come Facebook, Instagram, YouTube e X, per “contrastare le fake news e l’incitamento all’odio” – i giovani nepalesi hanno letto tra le righe: censura, considerata la linea rossa. Così hanno sfruttato l’unico social ancora a disposizione, TikTok, e sotto il nome di “Gen Z Rebels” sono scesi per le strade, davanti al Parlamento, la protesta si è allargata, il punto non sono i social, urlavano, lottiamo per “un paese senza corruzione e senza promesse infrante”. Secondo l’organizzazione indipendente Transparency International, il Nepal è uno dei paesi più corrotti dell’Asia.

 

 

Da quel momento è diventata “la protesta della generazione Z” – cioè la generazione nata tra il 1995 e il 2010, quella dei nativi digitali, i primi a essere nati e cresciuti interamente nell’èra di internet – per l’età dei manifestanti – nel 2021 i giovani nepalesi sotto i trent’anni rappresentavano il 56 per cento  della popolazione totale del paese – per il luogo in cui si è acceso il dissenso – sul web – e per la lingua e i simboli sventolati nelle piazze. I cartelli con l’hashtag #nepobaby, la bandiera del manga giapponese “One Piece” raffigurante un teschio con un cappello di paglia che ha fatto il giro del mondo ed è comparsa poche settimane dopo in altre proteste in Asia e non solo, diventando il simbolo degli ultimi movimenti guidati dalla “Gen Z”.

 

 

In Indonesia gli hashtag sono stati  #IndonesiaGelap, Indonesia oscura, e #KaburAjaDulu, Scappa e basta, in riferimento alla necessità di cercare opportunità altrove, come in India o in medio oriente: secondo la Banca mondiale, lo scorso anno in Indonesia quasi il 14 per cento delle persone tra i 15 e i 24 anni era disoccupato, in Nepal la percentuale è persino più alta. Eppure nonostante i ragazzi sotto la soglia dei trent’anni costituiscano circa la metà della popolazione in entrambe le democrazie asiatiche, il termine “Generazione Z” non necessariamente definisce l’età di chi scende  in piazza per protestare – in Nepal uno dei leader del movimento è un millennial di dieci anni più vecchio degli altri.  E’ il grido di una generazione stanca di essere definita apatica, dipendente dai social media, definita “zoomer” perché costretta alle piattaforme online come unico mezzo di comunicazione durante la pandemia. Così si è servita dei social network e ne ha sfruttato la potenzialità, dimostrando che proprio i giovani nati con il boom della tecnologia sono per questo anche i più capaci a utilizzarla nel migliore dei modi: anche  per organizzarsi e mobilitarsi velocemente contro i propri governi. Un elemento comune di queste proteste è stata spesso la piattaforma di messaggistica Discord, creata per gli appassionati di videogiochi che conta 600 milioni di utenti in tutto il mondo – il suo uso negli ultimi anni si è ingrandito e diversificato, non soltanto con risvolti “virtuosi”: è la stessa su cui Tyler Robinson aveva scritto dell’omicidio dell’influencer trumpiano Charlie Kirk, e su cui   i rivoltosi americani hanno organizzato l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021. 

 

 Le foto e i simboli del dissenso hanno in poche settimane contagiato anche i paesi vicini, nelle Filippine è nato un hashtag per descrivere questa contaminazione,  #SEAblings, un gioco di parole che significa “fratelli nel Sud-est asiatico”, oppure vicini al mare, in solidarietà con l’Indonesia. Anche a Manila la protesta si è accesa sulla corruzione (oltre 30 mila persone si sono riversate sul thread della piattaforma Reddit “lifestyle check”, lo stile di vita dei ricchi) e  sui miliardi di dollari persi dal governo di Manila per progetti di soccorso per le inondazioni e alluvioni che non si sono mai concretizzati. L’impatto è stato enorme anche per il numero di utenti filippini, tra i più attivi sui social media nel mondo, ed è qui che è ricomparsa la bandiera di One Piece, diventata simbolo di libertà contro l’oppressione. Non è la prima volta che i film e i cartoni animati compaiono  nelle piazze: in Thailandia e in Myanmar il simbolo di riconoscimento delle proteste pro democrazia è il saluto a tre dita tratto dalla serie Hunger Games, nelle ultime proteste dell’opposizione in Turchia è diventato famoso il  Pokémon Pikachu, in Cina  Winnie the Pooh è ormai il personaggio noto per riferirsi al leader cinese Xi Jinping, tanto da essere stato censurato dal Partito comunista cinese. 

 


La portata del dissenso in molti paesi asiatici in un lasso di tempo così ravvicinato è stata talmente diffusa da far parlare di “primavera asiatica”, in riferimento alla primavera araba scoppiata nel 2010: il paragone però è azzardato, nonostante alcuni punti in comune (l’età dei manifestanti, la disoccupazione e la corruzione) le proteste nel Sud-est asiatico si sono verificate in sistemi perlopiù democratici  e  hanno più di una volta portato a transizioni di potere pacifiche. Né sono le prime: nel 2022 i giovani dello Sri Lanka hanno posto fine alla dinastia decennale dei Rajapaksa, creando il movimento “Aragalaya”, la lotta, allestendo il campo GotaGoGama, o anche GotaGoVillage, e occupando infine la residenza della dinastia. L’anno scorso è stato poi il turno del Bangladesh, dove i giovani, soprattutto studenti, si sono organizzati su piattaforme più tradizionali come Facebook e WhatsApp. Il risultato è stato però simile: l’estromissione dal potere della prima ministra Sheikh Hasina, costretta a scappare in India. In Myanmar, dal colpo di stato della giunta militare birmana del 2021, i giovani protestano e collaborano  con il governo democratico in esilio, il National Unity Government (Nug) e il suo braccio armato, la People’s Defence Force (Pdf) contro le brutalità dell’esercito, la coscrizione forzata, la liberazione della leader Aung San Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici. E’ sui social che da quattro anni denunciano la guerra civile nel paese per tenere accesa la luce, con un hashtag: #WhatshappeninginMyanmar, Cosa sta succedendo in Myanmar, e anche qui si è parlato di Generazione Z per un motivo: i birmani di età compresa tra 15 e 35 anni rappresentano il 33 per cento dei 60 milioni di abitanti del paese, con un’età media nazionale di 27 anni.  

 

I giovani nepalesi  hanno dato ai figli dell’élite  dei soprannomi: Nepo Kid, o Nepo Baby. L’hashtag è diventato   lo slogan dell’insofferenza nata sui social


C’è poi un altro fattore da considerare: le manifestazioni delle scorse settimane  non sono rimaste circoscritte  al continente asiatico.  Il 25 settembre  in Madagascar sono iniziate le proteste per le prolungate interruzioni di corrente e acqua, il movimento è nato su Facebook e su TikTok con l’alias “Gen Z Mada”, e dai black-out il dissenso si è spostato velocemente a richieste di riforme e delle dimissioni del presidente, Andry Rajoelina. In poco tempo si è creata un’alleanza tra giovani e sindacati, la scintilla ha provocato una protesta sistemica sulla condizione del paese: il Madagascar è uno dei paesi più poveri al mondo, con il 75 per cento della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Rajoelina ha sciolto il Parlamento, e ha nominato un generale dell’esercito come nuovo primo ministro,  ma nel frattempo le autorità hanno continuato a reprimere il dissenso, con ventidue persone uccise e oltre cento feriti. Sempre su Facebook la Gen Z Mada ha rilasciato un comunicato: “Rifiutiamo l’invito del presidente a dialogare. Non intendiamo dialogare con un regime che reprime, aggredisce e umilia i suoi giovani nelle strade”.

 

“Gen Z” non necessariamente definisce l’età di chi protesta,  ma è il simbolo  di una generazione stanca di essere definita apatica e dipendente

 

La stessa scintilla è scoppiata più di una settimana fa in Marocco, Gen Z è sempre presente nel nome degli organizzatori, ma questa volta seguita dal numero 212: è il numero del prefisso telefonico del paese. Anche qui sulla piattaforma Discord, il movimento Gen Z 212 è cresciuto da 3 mila membri a oltre 130 mila in pochi giorni, dopo la morte di otto donne che avevano partorito nello stesso ospedale nella città costiera di Agadir: “Gli stadi ci sono, ma dove sono gli ospedali?”, è uno degli slogan ripetuto nelle strade, in riferimento agli investimenti massicci di Rabat per la prossima Coppa d’Africa e per i Mondiali di calcio del 2030, insieme a “Prima  la salute”  e “Libertà, giustizia e dignità sociale”. Secondo l’Organizzazione mondiale  della Sanità, il Marocco ha meno di otto medici ogni 10.000 abitanti, quando dovrebbero essere almeno 25. Anche la generazione Z marocchina ha sparigliato le carte e mostrato un impegno politico inaspettato persino secondo i sondaggi: fino a pochissimo tempo fa alcuni studi sottolineavano il disimpegno dei giovani marocchini, meno di un terzo dei giovani si è registrato per votare alle elezioni del 2021, il 37 per cento di loro è disoccupato, quasi un laureato su cinque,  e spesso gli analisti hanno  confuso  il distacco con il disinteresse. Invece “sono loro a renderci invisibili”, gridano da una settimana ininterrottamente per le strade: “Niente lavoro, niente scuole di qualità, niente assistenza sanitaria. Vogliamo essere ascoltati”. Alcune proteste si sono prolungate e inasprite dopo  la risposta violenta dei governi: in Indonesia un fattorino è stato ucciso da un veicolo blindato della polizia mentre consegnava cibo, in Marocco un furgone ha travolto un manifestante  e la polizia ha sparato il fuoco su tre manifestanti a Leqliaa, anche  in Perù a fine settembre ci sono stati violenti scontri con le forze dell’ordine: “Chiediamo una vita senza paura”, si leggeva su alcuni cartelli a Lima, dove  ai giovani si sono uniti tassisti e autisti di autobus contro l’aumento della criminalità sotto il governo di Dina Boluarte, destituita giovedì con un impeachment.


 

Nonostante l’accento posto sulla “Gen Z”, la novità non è l’età particolarmente giovane dei manifestanti   – anche le proteste a Piazza Tiananmen in Cina, la Rivoluzione degli ombrelli a Hong Kong e la Primavera araba erano guidate dai giovani – ma l’uso dei social network per mobilitarsi: la potenzialità di unirsi sotto un semplice hashtag o simbolo, con video di pochissimi secondi,  servendosi anche dell’intelligenza artificiale:  in Nepal hanno   utilizzato le piattaforme come ChatGPT, Grok e DeepSeek per realizzare   alcuni video per i social sui “nepo boys” e sulla corruzione.

I regimi già da tempo hanno compreso il “rischio” dei social  come cassa di risonanza del dissenso e  per questo li monitorano con attenzione

Gli stati autoritari già da tempo hanno compreso il “rischio” dei social media come cassa di risonanza del dissenso ed è per questo motivo che in molti paesi sono monitorati con attenzione, con restrizioni e censura. In Cina il Great Firewall, la grande muraglia informatica di Pechino, controlla ogni movimento  su Internet dei cinesi, che hanno imparato   metodi piuttosto creativi per  esporsi contro il Partito  e non raramente riescono a eludere i suoi occhi attenti. Dopo la pandemia e la crisi economica i giovani si sono riconosciuti con il termine tangping, gli sdraiati, per ribellarsi  alla società cinese con l’improduttività, poi sono passati al termine neijuan, involuzione, per descrivere una società che non può fare altro che tornare indietro, senza evolvere più. Per lungo tempo la Generazione Z è stata associata allo  “slacktivism”, l’attivismo che si limita solo ai social, e al  “quiet quitting”,   la decisione di non andare oltre le proprie mansioni minime impegnandosi al minimo nel proprio lavoro. Ora, nei paesi del sud del mondo, qualcosa sembra essere cambiato: “Siamo la generazione Z, ma stiamo facendo solo il lavoro sporco dei vecchi”, urlava un ragazzo un mese fa davanti al Parlamento nepalese.

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