dalla nostra inviata

Per Israele è il momento dell'accordo, ma senza zone grigie. Cosa cambia, gli attori, i pericoli

Micol Flammini

C’è voglia di normalità, di ripresa. Questa volta deve funzionare, non si ammettono fallimenti. Come si costruisce una pace vera contro Hamas: istruzioni

Tel Aviv, dalla nostra inviata. “Quando nessuno spiffera dettagli, allora è un ottimo  segnale”, dice Eyal Hulata, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale. “Vuol dire che a Sharm el Sheikh le delegazioni stanno parlando sul serio”. Hulata di negoziati ne ha visti molti, di successo o falliti, e il silenzio che ammanta le trattative indirette in Egitto fra Israele e Hamas è la garanzia di un impegno concreto. Israele ha già preparato il protocollo di accoglienza per gli ostaggi: ospedali, psicologi, trasporto. Alcuni locali in giro per Tel Aviv annunciano feste per celebrare il ritorno dei rapiti. Le tende montate per tutto il paese per Sukkot, la festa delle capanne che si celebra in questi giorni, sono diventate il simbolo della speranza che qualcosa accadrà a breve e sarà qualcosa di buono: le capanne sono case e gli ostaggi torneranno. Una signora, che  si dedica a togliere per la città  i manifesti con i volti degli ostaggi liberati, confessa di non vedere l’ora di staccare tutte le foto, immagina già le strade sgombre, liberate dai volti di chi ha subìto la prigionia: le prende una per una, le ripiega con cautela, quasi accarezzandole. 

 
C’è voglia di normalità, di ripresa. Questa volta deve funzionare, non si ammettono fallimenti. L’entusiasmo si accompagna e contrasta con molte altre emozioni: stanchezza, rabbia, esultanza, titubanza. Poi c’è la domanda a cui gli israeliani non riescono a dare risposta: abbiamo vinto o abbiamo perso? La risposta che gli israeliani di Tel Aviv si danno è spesso unanime: i successi militari sono una vittoria, ma Hamas ci ha stravolti per sempre. Per rispondere in modo lucido bisogna aspettare un accordo: “Un accordo così non c’era mai stato”, dice Hulata, sempre critico nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu, ma ora pronto a riconoscere che per la prima volta ci sono delle condizioni diverse. È una svolta. 

  

Gli uomini di Trump

Sono arrivati a Sharm el Sheikh l’inviato americano per il medio oriente Steve Witkoff e il genero del presidente americano, Jared Kushner. Non se ne andranno a mani vuote. Anche nei precedenti negoziati, Witkoff era  in medio oriente  quando aveva la certezza che qualcosa potesse essere concluso. Questa volta la presenza di peso è quella di Kushner, che non soltanto ha la missione di concludere un accordo, ma sa come parlare con il Qatar. Anche il premier qatarino al Thani ha raggiunto l’Egitto e il suo ruolo è quello di far pressione su Hamas. Kushner è l’ideatore di una pace in medio oriente costruita con gli accordi commerciali, è tra le menti degli Accordi di Abramo che hanno portato alla prima serie di normalizzazioni fra paesi arabi e Israele. L’attacco di Hamas ha bloccato il progetto, adesso Kushner deve fare in modo che riparta. Danny van Buren, ex capo dei riservisti, sostiene che l’accordo sia strutturato su tre livelli. Il primo riguarda la liberazione degli ostaggi, il secondo la pacificazione, il terzo riguarda il progetto economico che può nascere solo da un medio oriente stabilizzato, “è questo il punto che sta più a cuore a Trump”, dice il generale. “Ma in mezzo c’è il secondo, che è il più complesso”. 


Piani che funzionano

Danny van Buren mette in relazione due accordi: quello concluso con l’Egitto nel 1979 e quello siglato con il Libano nel 2006. Il primo ha portato a una pace duratura. Il secondo a una nuova guerra. “La differenza sta nelle zone grigie. Con l’Egitto si è lavorato sui dettagli. Con il Libano sono stati accettati i buchi e abbiamo avuto una nuova guerra con Hezbollah. Nel secondo si è lasciato che non fosse Israele a occuparsi della sua sicurezza, ma l’Unifil. Questo piano di pace è ancora pieno di zone grigie e sono soprattutto nella fase di mezzo che riguarda il disarmo, il controllo politico e la pacificazione”. Secondo il generale, nella prima fase sulla liberazione degli ostaggi i punti sono molto più chiari e anche le condizioni di  Hamas per il rilascio di terroristi condannati all’ergastolo per aver organizzato attentati, come Marwan Barghouti, non bloccheranno l’accordo. Hamas potrebbe tenerci meno del previsto. 

   

Il vecchio mediatore e il nuovo

E’ entrato un nuovo attore regionale in questo negoziato: la Turchia. Il Qatar ha sempre fatto da mediatore, questa volta potrebbe essersi deciso a fare più pressione su Hamas per non deludere Trump e anche perché l’attacco di Israele a Doha, fallito nell’obiettivo di colpire i leader di Hamas, potrebbe aver preoccupato i qatarini. “Il Qatar non abbandonerà Hamas”, dice Oded Ailam,  l’ex capo della divisione controterrorismo del Mossad. “Ma ha capito che è il momento di cambiare. Ma soprattutto l’arrivo della Turchia con forti ambizioni in medio oriente è una rivoluzione da tenere d’occhio. Trump ha chiesto impegno ed Erdogan non negherà il suo impegno”. Fino a poco tempo fa, Hamas riteneva che gli ostaggi fossero l’arma di ricatto più potente contro Israele. Lo pensa ancora, ma ha cambiato strategia: ora crede che potrà usarli per negoziare la sua sopravvivenza.
 
Ieri lo Shin Bet ha annunciato di aver fermato il tentativo dell’Iran di contrabbandare armi in Cisgiordania. Nella lista c’erano granate, droni, razzi anticarro. La Repubblica islamica dell’Iran punta a destabilizzare dove Hamas ha un grande consenso. Non ha rinunciato alla guerra contro Israele e, ora che il suo anello di fuoco si è rotto, ha due punti da cui ripartire: la Cisgiordania e quel che rimane di Hezbollah in Libano. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)