Ansa

l'editoriale del direttore

Lo stato palestinese non merita Hamas

Claudio Cerasa

Combattere contro la violenza di Netanyahu premiando la strategia di Hamas non significa lavorare per il riconoscimento di uno stato: significa lavorare per il riconoscimento di un metodo: il terrorismo. Evviva la terza via italiana 

Segnatevi queste parole, prima di andare avanti e prima di arrivare a quello che è successo stanotte e che era stato già anticipato due giorni fa da Giorgia Meloni. Segnatevi queste parole, prima di andare avanti, che non sono parole di Meloni, e capirete qualche riga più in là di chi sono: “Il riconoscimento internazionale dello stato di Palestina è un passo importante per consolidare il diritto del nostro popolo alla sua terra e ai suoi luoghi santi, e per istituire il suo stato indipendente con Gerusalemme capitale: è il giusto esito della lotta, della fermezza e dei sacrifici del nostro popolo sulla strada della liberazione e del ritorno”. Ora. Prima di comprendere il significato di queste parole, che forse avrete intuito, vale la pena di tornare ad altre parole, ugualmente interessanti, che sono quelle pronunciate stanotte da Giorgia Meloni alle Nazioni Unite, per ribadire la linea prudente ed equilibrata dell’Italia rispetto a un tema delicato legato al futuro del medio oriente: è davvero il momento giusto per riconoscere lo stato palestinese? Giorgia Meloni dice, al contrario di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu, che la Palestina ha tutto il diritto di aver riconosciuto il suo stato, come sostengono i numerosi paesi che all’Onu hanno seguìto la linea della Francia, del Regno Unito, del Canada, dell’Australia e dell’Arabia Saudita. Ma a differenza di ciò che pretendono i paesi che hanno sottoscritto la famosa risoluzione per il riconoscimento urgente della Palestina, Meloni sceglie di mettere alcuni paletti logici, affermando che non si può pensare di riconoscere uno stato palestinese con Hamas alla sua guida, e ancora armato, e con gli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi.

 

Il governo Meloni, evidentemente, cerca di trovare soluzioni creative per evitare che l’opinione pubblica possa trasformare la non adesione dell’esecutivo all’algoritmo del genocidio in una minaccia al proprio bacino elettorale. E si spiega in fondo anche così, con la volontà di trovare soluzioni creative per non essere vulnerabili, la scelta importante fatta dal ministro Guido Crosetto ieri, ovverosia affiancare la flotilla con una fregata italiana. 

 

La terza via scelta dal governo sul medio oriente meriterebbe di essere osservata con attenzione non solo dai governi europei che hanno scelto di rimuovere il tema di Hamas dall’agenda dei problemi del medio oriente ma anche da tutti coloro che quando osservano la tragedia di Gaza mostrano grande e fondamentale sensibilità intorno a un tema oggettivamente cruciale: la mobilitazione contro la violenza. La violenza che ovviamente fa titolo oggi, perché è la violenza più alla luce del sole, è quella generata dall’esercito israeliano, la cui guerra di liberazione di Gaza, per così dire, ha prodotto non solo un numero insostenibile di vittime innocenti ma anche un disorientamento assoluto da parte di chi ha sempre amato Israele. Ma la violenza che dovrebbe avere a cuore chi manifesta contro la violenza in medio oriente è anche un’altra. Ed è quella che indiscutibilmente sarebbe premiata qualora si decidesse di riconoscere oggi, senza condizioni, lo stato palestinese.

 

Bernard-Henri Lévy, filosofo francese, due giorni fa sul Point ha spiegato bene la ragione per cui anche chi ha sempre sostenuto la necessità di scommettere per il futuro del medio oriente sulla nascita di uno stato palestinese in questo momento dovrebbe essere fermamente contrario a questa opzione. E la ragione è semplice. In caso di un riconoscimento della Palestina, oggi, sarebbe difficile non dare torto a chi sostiene che il terrorismo paga, che il terrorismo può portare frutti, che il terrorismo può essere la soluzione, che il terrorismo può avere successo laddove tutto il resto ha fallito, grazie alla sua “resistenza”, grazie ai suoi “martiri”, grazie a un attacco, quello del 7 ottobre, che da pagina buia della storia del medio oriente potrebbe essere ricordato come l’inizio di un riscatto, di una rivoluzione positiva, con tanto di bollino di riconoscimento della comunità internazionale. Chi si augura che il medio oriente possa avere un futuro finalmente non violento dovrebbe essere in prima linea oggi nel riconoscere che combattere contro la violenza di Israele premiando la violenza di Hamas non significherebbe lavorare per il riconoscimento di uno stato: significherebbe, semplicemente, lavorare per il riconoscimento di un metodo.

 

La terza via italiana, che è una terza via simile a quella tedesca, non è un tentativo di sfuggire alla realtà, di buttare la palla in tribuna, di trovare un equilibrio ipocrita di fronte a una situazione tragica. Ma è una strada in fondo necessaria per non rimuovere le radici primarie della violenza a Gaza. E chiunque sia davvero interessato a un futuro costruito attorno alla parola pace, in medio oriente, e a Gaza in particolare, non può non ripartire dalle frasi con cui abbiamo aperto questo articolo. E alle quali ne aggiungiamo un’altra, per capire il contesto. “Il riconoscimento internazionale dello stato di Palestina è un passo importante per consolidare il diritto del nostro popolo alla sua terra e ai suoi luoghi santi, e per istituire il suo stato indipendente con Gerusalemme capitale: è il giusto esito della lotta, della fermezza e dei sacrifici del nostro popolo sulla strada della liberazione e del ritorno: Hamas ha accolto con favore il riconoscimento da parte di Regno Unito, Canada e Australia dello stato di Palestina”. Lavorare per la pace in medio oriente, e per la fine della guerra a Gaza, è sacrosanto. Farlo legittimando il metodo del terrorismo dovrebbe esserlo meno. Una terza via è possibile. Sempre che il partito della pace non abbia scelto di considerare l’agenda del terrore come una via necessaria e tutto sommato indolore per resistere senza troppi danni all’algoritmo del genocidio. Che ha trasformato in un complice del  “nuovo nazismo” non solo chi ha a cuore la difesa di Israele, che è cosa diversa dalla difesa di Netanyahu, ma chiunque ha ancora la forza di usare senza vergognarsi, di fronte alla tragedia di Gaza, la parola Hamas.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.