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I corridoi della paura a Suwalki, la striscia di terra che divide l'oriente di Putin e l'occidente della Nato

Stefano Cingolani

Tra Kaliningrad e la Bielorussia si estende una zona cruciale per l’equilibrio europeo, oggi epicentro delle tensioni tra Mosca e l’Alleanza atlantica. Le manovre militari e i segnali politici indicano un confronto sempre più diretto, con scenari che ricordano i momenti più bui del Novecento

C’è sempre una sottile striscia di terra in Europa che separa l’oriente dall’occidente. C’era Danzica dopo la prima guerra mondiale e divenne l’occasione per un secondo e ben più barbarico conflitto, con l’occupazione nazista della Polonia per difendere, naturalmente, i cittadini tedeschi e sterminare gli ebrei. Calata la Cortina di ferro, c’è stato il “varco di Fulda” in Germania, lungo il fiume tra la Turingia e la Baviera: la Nato lo presidiava sapendo bene che bastava attraversarlo per trovare in un baleno i carri armati sovietici a Francoforte sul Meno. La Germania era una sola nazione, seppur divisa; a Danzica invece si fronteggiavano due popoli da secoli in guerra e lo stesso vale per quella brulla pianura punteggiata da boschetti di betulle, già ingrigita dall’autunno incipiente, oltre le ultime case di Suwalki. E’ il nuovo corridoio della paura, una striscia di terra al confine tra la Polonia e la Lituania, che conduce a Kaliningrad, l’antica Königsberg già capitale del Regno di Prussia e patria di Immanuel Kant, russificata da Stalin. La distanza con Danzica è di 162 chilometri;  il corridoio di Suwalki è lungo appena 65 chilometri. La città che dà il nome al territorio ha 68 mila abitanti ed è lo snodo con la Bielorussia, stato vassallo di Mosca retto da un regime fantoccio del Cremlino. Il municipio fa parte del voivodato di Podlachia, una regione che vive di pascoli, con 120 mila aziende, la metà delle quali piccole fattorie. Da sempre si parla non solo polacco, ma ruteno (come in Vojvodina, provincia autonoma della Serbia), lituano, russo e ormai American-English perché da quando nel 2014 Vladimir Putin si è impadronito della Crimea e ha cominciato una decennale guerra nell’Ucraina orientale, quel territorio periferico e semi-sconosciuto è diventato una linea del fronte, non l’unica anche se la più calda, anzi rovente.


La nuova cortina di ferro in realtà parte dalla Norvegia, una piccola striscia nell’estremo nord ben oltre il circolo polare, poi arriva alla Finlandia un confine di 1.300 chilometri attraversato più volte dalla Russia. Quando regnavano gli zar era una provincia della Grande Russia, l’indipendenza arriva nel 1917, ma dura poco, nel 1939 scoppia la guerra d’inverno che vede anche soldati svedesi al fianco dei finlandesi i quali bloccano l’invasione sovietica, però cedono parte del territorio, poi si schierano con i tedeschi. Durante la guerra fredda finlandizzazione è sinonimo di sovranità limitata. Dopo l’invasione dell’Ucraina non c’è più spazio per la neutralità, la Finlandia entra nella Nato e chiude il confine. Giù giù troviamo l’Estonia e la Lettonia, la Bielorussia e l’Ucraina fino al Mar Nero. I russi non sono arrivati a Odessa, ma poco lontano c’è uno staterello diventato indipendente nel 1991, la Moldova, lacerato dalla secessione della Transnistria ancor più piccola striscia di terra sulla riva orientale del fiume Dnestr, che innalza una bandiera rossa con banda verde e una bella falce e martello. La sua indipendenza è avvenuta nel 1992 manu militari, appoggiata dall’armata russa agli ordini del generale Aleksandr Lebed. E’ il cuneo di Mosca verso la Romania, fino alla Serbia filo russa, ai Balcani mai pacificati davvero e all’Adriatico. Sono esercitazioni da geopolitici, giochi di guerra imbastiti a tavolino? L’invasione dell’Ucraina ci ha dimostrato che non è così, non più. Siamo pronti a tenere un fronte tanto vasto? L’Italia non lo è, ha ammesso il ministro della difesa Guido Crosetto, suscitando un putiferio come sempre quando si dice la verità. E l’Unione europea? E la Nato?


Può darsi che l’Occidente sia solo un’espressione geografica. Ne è convinto Donald Trump (e non solo lui). Lo storico di origine greca Georgios Varouxakis che insegna pensiero politico a Londra e ha appena pubblicato un libro recensito con entusiasmo dal Financial Times (The West: The History of an Idea) sottolinea che è una espressione politica più recente di quanto si possa immaginare. Per Vladimir Putin è qualcosa di più, è nello stesso tempo un’immagine sulla mappa, un’idea da contrastare, un simbolo e soprattutto un obiettivo militare. Si chiamano Occidente, in  russo zapad, le esercitazioni con la Bielorussia, le ultime di una serie che va avanti dal 2009, a conferma di quanto covi da tempo la voglia di rivincita. Le manovre si sono svolte là dove la Russia Bianca confina con l’antica Moscovia. Forse una scelta prudente, ma secondo l’intelligence della Nato un depistaggio perché il passaggio a Nord ovest, fragile più che mai, è a Suwalki. 


Il corridoio nasce nel 1920 in conseguenza della nuova divisione dell’Europa dopo il crollo e la disintegrazione degli Imperi centrali, quello prussiano e quello asburgico, sconfitti nella prima guerra mondiale. Ma a differenza da altre frontiere roventi (per esempio Italia e Jugoslavia) quella di Suwalki è rimasta a lungo quieta. Prima invasa dalle truppe tedesche, poi liberata da quelle sovietiche, si è cominciato a capire la sua importanza quando l’Armata Rossa, sfondato il fronte occidentale (il suo occidente) ha attraversato la Prussia orientale ormai desertificata e ha fatto ingresso in quella che era stata capitale degli Hohenzollern e prima ancora dei Cavalieri teutonici, i monaci guerrieri ai quali dopo le crociate erano state assegnate le terre fredde e desolate sulle rive del Mar Baltico. Non c’erano più tedeschi a Königsberg, tutti erano fuggiti verso ovest in regioni germaniche che per lo più li respingevano, come in Baviera. Milioni di profughi in patria la cui sorte è rimasta incerta fino al 1950 e anche dopo. La città è stata ribattezzata Kaliningrad in omaggio a Mikhail Ivanovich Kalinin, l’esponente dell’originario nucleo bolscevico che dopo la morte di Lenin si schierò subito con Stalin diventando “il prestanome per la firma di tutti i decreti”, come disse Nikita Kruscev. Proclamata “città chiusa”, è una fortezza armata fino ai denti, una lama nel fianco dell’Alleanza atlantica, una continua minaccia ai suoi vicini oltre che ai paesi scandinavi; conta poco più di un milione di abitanti, i tedeschi sono appena 8.600; la pulizia etnica è stata completa, come avviene ancor oggi nei territori occupati da Mosca. 


L’accordo del 1920 aveva messo fine alle tensioni tra Polonia e Lituania appena diventate indipendenti. Nel 1946 la prima viene proclamata repubblica popolare, l’altra è territorio dell’Unione sovietica senza nemmeno il paravento di una finta autonomia. Dopo l’implosione dell’Urss e l’adesione alla Nato dei paesi baltici, quei 68 chilometri diventano cruciali. Mosca negli anni di Eltsin propone una fascia extraterritoriale che colleghi l’oblast di Kaliningrad a Hrodna in Bielorussia, ma Polonia e Lituania si oppongono appoggiate dall’Unione europea. Arrivato al potere, Putin chiede un diritto di transito libero, senza passaporti, per 12 ore esteso a tutti gli abitanti dell’area di Kaliningrad attraverso corridoi speciali. In Polonia si ripresenta lo spettro di Danzica, la stessa parola corridoio usata dai russi fa drizzare i capelli sul capo, mentre l’allora presidente polacco Aleksander Kwasniewski solleva anche questioni che riguardano l’impatto ambientale. La fettuccia di terra tra l’altro è attraversata dalla strada europea E67 chiamata anche via Baltica che collega l’Europa centrale al “Mediterraneo del Nord”. In parallelo corrono le linee elettriche e le infrastrutture strategiche. Putin molla la presa, ma punta subito al bersaglio grosso: l’Ucraina. Nel 2014 anche la Nato si accorge che quello è il punto più vulnerabile e comincia a rafforzare la sua presenza, anche se non a sufficienza; solo dopo il febbraio 2022 e l’attacco russo da sud, da est e da nord, l’allarme viene davvero preso. Da giugno di quell’anno le sanzioni contro Mosca chiudono di fatto il varco via terra.


La manovra Zapad 2025, completata martedì 16 settembre scorso, ha impiegato un ventesimo delle truppe di Zapad-2021, ma anche i nuovi missili Oreshkin con capacità nucleari. All’esercitazione congiunta tra Russia e Bielorussia sono stati invitati militari occidentali, mentre stavano terminando le operazioni Nato in Lituania, in Lettonia, nella stessa Polonia e sul Mar Baltico. Secondo l’agenzia Reuters, il ministro della difesa bielorusso Viktor Khrenin ha rivolto un esplicito sollecito ai due ufficiali americani presenti: “Vi mostreremo tutto ciò che vi interessa. Tutto ciò che desiderate. Potete andare lì, vedere e parlare con la gente”. C’erano anche rappresentanti di 23 paesi tra i quali Turchia e Ungheria. Di fronte a loro si è presentato un Vladimir Putin in divisa. A buon intenditor poche parole. Nonostante la campagna propagandistica, tutti gli sforzi per rassicurare gli europei hanno avuto il risultato di aumentare l’allarme. Il ministro degli esteri polacco Radoslaw Sikorski ha dichiarato che durante le esercitazioni Russia e Bielorussia hanno messo in atto “scenari molto aggressivi”, tracciando parallelismi con esercitazioni simili svoltesi prima dell’invasione russa della Georgia nel 2008, nonché dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina. Il provocatorio sconfinamento di una ventina di droni russi in territorio polacco è stato ridimensionato da Donald Trump come un errore di rotta (o di mira), il premier Donald Tusk l’ha considerato una provocazione, per i comandi Nato è un assaggio delle capacità di reazione occidentali. La Polonia ha chiuso lo spazio aereo e schierato 40 mila uomini al confine, dal corridoio di Suwalki fino alla Slovacchia, intanto si prepara la Sentinella orientale, sarà sufficiente? 


Si tratta di una difesa prevalentemente aerea che punta a scoraggiare, fermare e neutralizzare i droni russi. Coinvolgerà una serie di risorse da alleati tra i quali Danimarca, Francia, Regno Unito, Germania e forse la stessa Italia divisa e riluttante. Saranno coinvolte soprattutto forze aeree, la Danimarca contribuirà con due F-16 e una fregata antiaerea, la Francia con tre aerei caccia da guerra “Rafale”, la Germania con quattro Eurofighter, l’Italia non si sa. Il comandante supremo della Nato l’americano Alexus Grynkewich ha già emanato gli ordini anche se occorrerà qualche tempo per raggiungere la piena operatività. L’operazione “coprirà l’intero fianco orientale dell’alleanza, dall’estremo nord al Mar Nero e al Mediterraneo, ovunque potremmo vedere una minaccia da parte dei russi”. Sarà modellata sulla Baltic sentry, la Sentinella del Baltico per proteggere le infrastrutture strategiche e monitorare le attività marittime da San Pietroburgo e dall’enclave di Kaliningrad, i due porti della flotta militare e mercantile russa nel Baltico. Vengono mobilitate fregate, una piccola flotta di droni navali per attività di sorveglianza delle infrastrutture strategiche, a complemento delle navi da guerra, dei sottomarini e degli aerei alleati, sostenuti da una avanzata tecnologia marittima. 


La guerra insomma è di fatto cominciata e Putin non va molto per il sottile: “Il conflitto ormai è globale”, proclama senza troppe sfumature. Donald Trump ondeggia, prende tempo, si capisce che ha paura. Non si tratta di buttare qualche bomba sull’Iran, ma di fronteggiare la seconda potenza nucleare, e lui non ha una strategia, non parliamo di una “dottrina” come fu il contenimento durante la Guerra fredda. Ma davvero gli Stati Uniti possono “tornare a casa”? Il posto nella storia per Trump sarà quello della grande ritirata? Sembra esserci una notevole distanza, che fa pensare a una vera e propria frattura, tra il Commander in chief e le sue truppe. Il generale Grynkewich parla delle due “sentinelle” con l’orgoglio di chi le ha costruite e le guida senza esitazioni né dubbi su chi sia il nemico, ma opera sotto l’usbergo della Nato. Paul Lanzilotta guida il Carrier Strike Group 12, il gruppo di assalto attualmente dislocato nel Mediterraneo sulla USS G. R. Ford, la più grande e avanzata portaerei nucleare del mondo, impegnata nell’operazione di vigilanza Neptune Strike. Ad agosto ha ricevuto una delegazione internazionale di giornalisti nell’hangar numero 2, dove sono parcheggiati alcuni degli F-18 dello squadrone Strike Fighter 31: “Se ci fosse un attacco contro un alleato della Nato – ha spiegato il comandante – noi saremmo parte della componente tattica che esegue gli ordini della nostra Strike Force ed è per questo che siamo concentrati sull’addestramento, per essere pronti a rispondere a qualsiasi minaccia.

E’ il più versatile, capace e manovrabile sistema d’arma navale del mondo – dice compiaciuto – abbiamo collaborato con Finlandia, Grecia, Italia, Francia, e quando ci uniamo ai nostri alleati nella regione formiamo davvero una forza straordinaria”. E ha aggiunto un tocco privato: “Tornare nel Mediterraneo significa molto per me: mio nonno è emigrato dall’Italia, dalla Calabria, e col suo duro lavoro ha garantito un’istruzione a mio padre e a me, che posso finalmente beneficiare dei loro investimenti e restituire qualcosa”. Neptune Strike non serve, con buona pace di Matteo Salvini, per bloccare i barchini degli immigrati clandestini, ma ben altri navigli che Mosca sposta dal Mar Nero fino alla Libia. Cosa direbbe il Comandante il capo a comandanti come Grynkewich e Lanzillotta: mollate tutto? La cronaca ha rivelato che anche l’impossibile può diventare possibile. E’ vero che negli Stati Uniti il sentimento isolazionista è sempre stato molto vasto, a lungo prevalente nell’opinione pubblica: al Congresso, in entrambi i principali partiti e nei mass media. Ma una cosa è non intervenire come avvenne nella prima guerra mondiale fino al 1917 e poi fino all’8 dicembre 1941 dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour. Tutt’altro è pronunciare una parola così carica di vergogna: ritirata. La sentiremo da quel personaggio pusillanime che siede oggi nell’Ufficio ovale ornato d’oro nemmeno fosse la tenda di uno sceicco, non d’acciaio come il colonnello Harry Truman che aveva combattuto nelle Argonne prima di incrociare le armi con Adolf Hitler e Josif Stalin? Lasciate che il nostro inguaribile ottimismo della ragione risponda no.

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