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Il racconto

Viaggio sulla “Trump route”, la rotta che divide il Caucaso

Michele Crestani

La striscia di terra lunga 40 chilometri a Syunik, nel sud dell’Armenia, è al centro delle lotte locali e degli interessi internazionali di America, Russia e Iran. Un racconto tra sospetti, cicatrici e fortificazioni 

Il quadro di pace tra Armenia e Azerbaigian, siglato durante il vertice dell’8 agosto a Washington tra il presidente americano, Donald Trump, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev, ha messo in luce una provincia al centro delle rotte commerciali tra Asia ed Europa: la striscia di terra di Syunik, nell’estremo sud dell’Armenia. L’accordo di pace avviato a Washington parla di una “Trump Route” che attraverserebbe Syunik, portando stabilità tramite il commercio. Chi vi abita è però diffidente nei confronti dell’Azerbaigian: se gli americani dovessero sbarcare con i loro enormi progetti in infrastrutture, potrebbero non conquistare facilmente i cuori e le menti di chi ha fatto di questo remoto lembo di terra casa propria.

 

Uno di loro è Padre Avetiq Mardirosian, 47 anni. Nel giardino del suo monastero, indica un muretto in pietra grigia, inciso con delle croci armene. Tra loro è scolpita una parola che onora il passato e potrebbe predire il futuro di Syunik. “Abbiamo perso il Nagorno-Karabakh perché non lo amavamo. Dio lo ha dato al nemico perché soffrissimo sulla nostra pelle. Ora, guarda qui, c’è scritto ‘ricorda’”, dice padre Avetiq. Nella vita “bisogna amare e preservare. Se non ami, Dio porterà via ciò che possiedi”. Padre Avetiq è la guida spirituale del monastero di Vahanavank, la cui storia si intreccia con quella di Syunik. Nato a Kirkuk, nel nord dell’Iraq, una città che ospita circa 30 famiglie armene ed è patria di curdi, turkmeni iracheni e arabi, padre Avetiq ha incrociato gli sguardi delle stesse popolazioni che hanno dominato Syunik per oltre mille anni. Quando nel XII secolo l’Armenia era frammentata in piccoli regni, Syunik fu uno degli ultimi a soccombere agli assalti delle popolazioni turche provenienti dall'Asia centrale. Nato come roccaforte medievale del sapere, il monastero di Vahanavank iniziò il suo graduale declino. Cadde in rovina dopo il XIV secolo, quando gli attacchi di mongoli e turkmeni misero in ginocchio la regione, strangolando gli armeni con tasse opprimenti. Le dominazioni straniere imperversarono su Syunik nei secoli successivi, fino a quando l’impero russo prima e l’Urss poi portarono stabilità politica.

 

 

Nel 1978, l’anno di nascita di Avetiqe il monastero inizia a rinascere coi primi lavori di restauro sovietici: “L’Iraq è il mio luogo di nascita. L’ho amato, ci sono cresciuto e mi sono laureato. Ma l’Armenia è la mia patria”. Eppure padre Avetiq è preoccupato per le attuali tensioni tra Armenia e Azerbaigian. Da quando il monastero di Vahavank ha definitivamente ripreso vita nel 2016, Avetiq ne ha assunto la guida ed è stato testimone dei recenti conflitti del Nagorno-Karabakh, entrambi vinti dall’Azerbaigian: la guerra dei 44 giorni nel 2020 e la pulizia etnica subita dagli armeni tre anni dopo. Le recenti ostilità hanno portato a un accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian nel marzo del 2025, rimasto tuttavia in sospeso. L’8 agosto 2025 è stato il giorno della svolta: il presidente Trump ha tenuto un vertice con il primo ministro armeno Pashinyan e il presidente dell’Azerbaigian Aliyev a Washington. Essendo le due nazioni formalmente in guerra, la firma trilaterale sul quadro di pace formalizza l’impegno di Armenia e Azerbaigian verso la fine del conflitto. Nell’agenda di Washington, questo primo, memorabile passo dovrebbe normalizzare le relazioni tra i due paesi nell’arco dei prossimi tre anni. Difatti, manca ancora la firma sul trattato di pace vero e proprio.

 

Una delle questioni chiave – vista da Baku come una minaccia alla sua sovranità – rimane il riferimento indiretto al Nagorno-Karabakh nella Costituzione armena. L’Azerbaigian ne ha preso il pieno controllo nel settembre 2023, ponendo fine a 35 anni di guerre e costringendo circa 120 mila armeni a emigrare verso la madrepatria. Ruzanna Tsatryan, 60 anni, ha vissuto l’esodo sulla propria pelle: “Fino all’ultimo secondo non credevo che ce ne saremmo andati”, racconta. Partendo con altre dieci persone su un’auto da otto posti, Ruzanna si è lasciata tutto alle spalle: documenti, due case, ettari di frutteti. In un giorno di pioggia, ha intrapreso il viaggio di sola andata verso l’Armenia, durato due giorni.

 

 

Per Ruzanna, lasciare il Nagorno-Karabakh ha significato perdere casa. Per Syunik, ha significato perdere una zona cuscinetto contro la pressione azera. Oggi, Syunik è quindi una striscia di terra larga quaranta chilometri che tocca l’Iran all'estremo sud, incuneata tra l’Azerbaigian e il Nakhichevan, l’exclave azera. Ruzanna vive ad Agarak, una cittadina di cinquemila abitanti che ospita l’unica dogana tra Armenia e Iran. Essendo cresciuta nelle tensioni della guerra, le controversie odierne attorno alla “Trump Route for International Peace and Prosperity” (Tripp), altro pilastro del vertice di Washington, evocano le stesse preoccupazioni vissute in Nagorno-Karabakh. Progettato per diventare un’arteria commerciale, il Tripp collegherebbe direttamente l’Azerbaigian e il Nakhichevan, costeggiando il confine con l’Iran e passando per Agarak. Ruzanna si oppone a questo progetto: “Sotto la maschera del commercio, gli azeri potrebbero portare forze militari in Armenia e poi avviare qualcosa dall’interno. E’ così che è iniziato in Nagorno-Karabakh: durante il periodo sovietico vedevamo che stavano infiltrando cittadini azeri. Volevano farlo sotto copertura, ma l’abbiamo capito e abbiamo reagito”, dice.

 

Il Tripp è il motivo principale per cui Syunik è ora sotto i riflettori. La rotta dovrebbe essere gestita da una joint venture armeno-statunitense e rientrare nella giurisdizione armena, garantendone la sovranità e l’integrità territoriale, con la totale assenza di forze armate straniere. Nonostante l’Azerbaigian abbia spinto per il passaggio incontrollato di merci come premio per la vittoria del 2023, gli accordi prevederebbero esclusivamente un uso commerciale della strada, con ispezioni a ogni passaggio e divieto di prodotti non commerciali e militari. Una volta costruito, il Tripp potrebbe sbloccare commerci tra i 50 e i 100 miliardi di dollari e ridurre i tempi di transito Europa-Asia di due settimane, stabilendo un collegamento diretto tra la Turchia e gli stati turchi del centro Asia. Con un migliore accesso alle immense risorse naturali del Mar Caspio, i paesi europei diversificherebbero le proprie fonti energetiche. Mentre l’attenzione di Russia e Iran è dirottata sulle guerre in Ucraina e in medio oriente, il colpo da maestro da parte della diplomazia americana colma questo vuoto di potere nel Caucaso meridionale. Russia e Iran vedrebbero la loro posizione internazionale indebolita. La prima, perdendo rilevanza nella sua storica area di influenza, il secondo nelle rotte commerciali. Viaggiando attraverso Syunik si notano infatti flotte di camion che ne percorrono regolarmente la strada principale. Secondo Mehdi Sobhani, ambasciatore iraniano a Yerevan, circa 400 camion attraversano il confine tra Iran e Armenia quotidianamente. Il Tripp potrebbe tagliare il numero di transiti attraverso l’Iran del 20-30 per cento.

 

Ecco perché l’Iran si oppone a questo progetto. Il volume degli scambi tra Armenia e Iran si avvicina a 1 miliardo di dollari, la maggior parte dei quali avviene tramite camion – il 76 per cento  del trasporto merci in Armenia avviene su strada. Nello specifico, nel 2024, gli scambi commerciali bilaterali hanno raggiunto i 737,4 milioni di dollari, con un aumento del 6,5 per cento rispetto al 2023. Guidando lungo il confine con l’Azerbaigian è facile vedere fortificazioni, alcune in costruzione, che fungono da deterrente nei confronti di un’eventuale invasione azera.

 

Dopo il 2023, le frequenti sparatorie nei villaggi di frontiera hanno mantenuto vivo il timore di un nuovo conflitto. Aree militarizzate sono visibili avvicinandosi a Nerkin Hand, un remoto villaggio alla fine di una valle che dà sul Nagorno-Karabakh. Circondato da montagne verdissime, Nerkin Hand è occupato parzialmente dagli azeri, in maniera illegittima. Le forze militari controllano posizioni strategiche come la chiesa, il cimitero e le fonti d’acqua. Dal suo cortile, Laura Khalapyan, 72 anni, vede gli avamposti azeri, situati vicino alla cima della montagna. La sua casa, come molte altre, costituisce un facile bersaglio. “Anche stamattina presto c’erano sparatorie. A volte sparano in aria per mettere pressione psicologica. A volte prendono di mira le case. A volte suonano il canto dell’Adhan (la chiamata islamica alla preghiera) per intimidirci”, racconta. L’età media della popolazione è in forte aumento a Nerkin Hand, che conta meno di cento anime. Gli abitanti incontrano sempre più difficoltà nel procurarsi il cibo dai frutteti o dal bestiame. Gli azeri occupano lo spazio destinato a pascoli e coltivazioni. Paradossalmente, si deve fare affidamento su Kapan, la città più vicina, anche per i latticini. L’unico fulcro del villaggio rimane quindi la scuola, dove Laura insegna materie scientifiche. Solo tre studenti sono iscritti per il 2025-2026. L’istituto potrebbe essere quindi costretto a chiudere. I genitori stanno valutando se mandare i figli a scuola nel villaggio vicino, o addirittura in città – il che genererebbe una catena di problemi.  “Non si tratta solo di prendere il bambino e mandarlo in un’altra scuola”, spiega Laura. L'ultimo centro di aggregazione e i pochi posti di lavoro di questa piccola comunità verrebbero messi a repentaglio. Secondo Laura, la scuola dà lavoro a circa quindici persone.

 

 

Nonostante un trasferimento a Kapan ne migliorerebbe facilmente la condizione, Laura vuole restare a Nerkin Hand. Con circa 33 mila abitanti, Kapan è il capoluogo della provincia di Syunik e ospita il monastero di Vahanavank di padre Avetiq. A Kapan, Laura potrebbe insegnare a Tumo, un’accademia extrascolastica, gratuita, senza esami di ammissione, che fornisce agli adolescenti competenze tech e artistiche ricercate nei giovani lavoratori del XXI secolo. Anush Mezhlumyan, 50 anni, è la direttrice del centro Tumo di Kapan, che ha 911 studenti. Alcuni di loro provengono dai villaggi vicini e dalla città di Goris: “Mi vedo benissimo. Sto imparando la pedagogia, come relazionarmi con gli adolescenti e il loro linguaggio”, dice Anush.

 

Kapan è a un chilometro dal confine con l’Azerbaigian, chiuso da quando i due stati proclamarono la loro indipendenza dall’Urss nel 1991. Anush deve quindi adattarsi: “Questa è la mia patria. La paura non ci riguarda. I bambini sono consapevoli dell’instabilità della situazione; ricordano tutti l’ultima guerra del Nagorno-Karabakh”. Tumo è diametralmente opposto alla decadente scuola di Nerkin Hand. E’ un programma educativo florido, che unisce apprendimento autonomo, workshop pratici e laboratori in 14 discipline che vanno dalla programmazione IT alla musica, dalla robotica alla scrittura. Ogni studente ha un account trilingue (armeno, inglese, russo) che tiene traccia di ogni progresso. Dopo l’apertura della sua sede principale a Yerevan nel 2011, Tumo ha ora filiali in dieci paesi e oltre 20 mila studenti. In Armenia, colma parzialmente il divario educativo in comunità rurali come Nerkin Hand. 

 

Oggi, dopo 34 anni di indipendenza, l’Armenia è delicatamente incastonata nel Caucaso meridionale. Il vertice di Washington dell’8 agosto è stato probabilmente il primo tentativo verso la pace con l’Azerbaigian. Da un lato, il quadro di pace mediato dagli Stati Uniti potrebbe essere difficilmente accettato da Russia e Iran, che storicamente hanno avuto la maggior influenza nella regione. Dall’altro, il ritiro dai territori armeni di confine illegalmente occupati dall’Azerbaigian sembra implicito, come nel caso di Nerkin-Hand. Tuttavia, questo e altri passi concreti verso la firma di un accordo di pace, come il rispetto delle rivendicazioni azere sulla costituzione armena, restano poco chiari. Incentrare l’accordo sulla rotta Tripp a Syunik dovrebbe scoraggiare future aggressioni azere. Ecco perché questa regione, finora trascurata, potrebbe rappresentare il fulcro di una futura stabilità che riecheggerebbe a livello internazionale.

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