
(foto EPA)
Il colloquio
Da dove ripartono i moderati, senza distruggere tutto. Parla Jacinda Ardern
Intervista all'ex premier neozelandese, in libreria con il suo memoir "Un altro genere di potere". Bontà, empatia e forza, ecco la sua formula per costruire un’alternativa all’aggressività di certe nuove destre e all’intransigenza di certe nuove sinistre
Le sue parole d’ordine, in politica, sono state: bontà, empatia e forza. Si può essere buoni e forti, dice al Foglio Jacinda Ardern, lo scrive nel suo memoir, lo ripete a tutti: si può essere empatici e portare a casa dei risultati. Ex premier della Nuova Zelanda, Ardern ha deciso di lasciare il suo incarico e la politica due anni fa, per dedicarsi (anche) alla famiglia. Ora ha pubblicato “Un altro genere di potere”, appena uscito in Italia per Baldini + Castoldi, dove racconta l’infanzia nelle fattorie, la chiesa mormona in cui è cresciuta, il suo gatto rosso, gli anni da deputata, i problemi di infertilità, le sfide politiche, fino a quando non ha deciso di lasciare Wellington, dopo che un giorno sua figlia di tre anni l’ha chiamata “primo ministro”. Ripete: bontà, empatia e forza, è la sua formula, un’alternativa all’aggressività di certe nuove destre e all’intransigenza di certe nuove sinistre, dove molti vogliono “qualcuno che dica: è tutto rotto ve l’aggiusto io”, e dove molti pensano che “distruggere sia il modo per risolvere le cose”. Dalla Francia agli Stati Uniti, la chiave di Ardern per capire e, poi, risolvere questo meccanismo malato è proprio l’empatia. La sinistra dovrebbe ripartire da lì. E’ una qualità che lei vede in altri leader, come nella presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, che è “trasparente sulle difficoltà del suo paese, ma resta concentrata sul motivo per cui vuole fare il suo lavoro in un certo modo, senza cedere”, e anche in Elly Schlein, “leader empatica”, che incontrerà venerdì a Milano alla Festa dell’Unità. Ma non è una novità del nostro tempo, dice Ardern, “basta pensare a un presidente come Franklin D. Roosevelt, che dimostra che puoi essere empatico in un momento di crisi anche se sei una superpotenza”. E poi “in recenti discorsi politici di vittoria, come in Australia o in Canada, abbiamo sentito l’importanza del valore della bontà. Penso che oggi venga amplificato molto un certo stile politico aggressivo e per qualche motivo abbiamo pensato che questo fosse il riflesso di quello che voleva la gente, o che fosse un metodo fortunato, di successo. Ma, io non sono d’accordo. Non credo che la gente voglia questa aggressività, questo approccio a gioco a somma zero che prevale adesso. La prova è l’aumento di disimpegno e distacco che c’è in politica. La gente cerca alternative, non solo nei partiti ma a volte anche nelle forme di governo”. Cosa vuol dire empatia? “Vuol dire governare dalla prospettiva di chi ti ha eletto e voler migliorare la vita delle persone”, ma “senza concentrarsi solo sul proprio popolo, solo dentro i confini del proprio elettorato, vedendo le internazionali con un interesse personale”. La politica, insomma, “ha un problema di branding”.
Sembra sollevata dal non esserlo più primo ministro, anche se resta attiva – Ardern ha appena terminato una fellowship a Harvard sull’empatia in politica, lavora su cambiamento climatico, violenza online e sulla distribuzione di fondi della Melissa Gates Foundation, e sta per pubblicare un libro per bambini – ma le manca che prima, quando si svegliava frustrata, aveva un lavoro dove poteva subito cambiare le cose, dice, “una posizione in cui puoi fare la differenza”. Ardern racconta che ha a lungo sofferto di sindrome dell’impostore, dice, ma ha anche scoperto, “scrivendo il libro”, che “se hai dei dubbi su te stessa, questo ti porta a prepararti di più, a calcolare i rischi, a essere pronta, e così finisci per portare umiltà al tuo ruolo. Pensavo che sentirsi un impostore fosse una cosa negativa e invece ha tirato fuori dei tratti che rispetto molto, e questo meccanismo lo vedo in altre persone”.
Anche se lei ha smesso, difende il mestiere del politico. “Ci sono due tipi di politici”, dice, “quelli che vogliono davvero migliorare la comunità e quelli che vengono scelti per risolvere dei singoli problemi. Io appartenevo al primo gruppo”, e anche se la gente vede un lato brutto nella politica, “alla fine resta il miglior strumento possibile per portare un vero cambiamento”. Quando l’allora leader laburista le chiese di rimpiazzarlo, il suo primo pensiero fu: “I dibattiti! Non posso fare i dibattiti televisivi!”. Ardern li paragona agli esami di fine anno, come la maturità, dove il giudizio di anni si limita a un esame di tre ore, sottolineandone la pressione estenuante. “Tutto il lavoro di policy, la preparazione e il lavoro fatto con la tua squadra si riducono a questa performance. Anche se ora è sempre meno importante”. Tranne che con Joe Biden, certo, quando fece scena muta davanti a Trump, “lì è stato fatale, ha cambiato tutto”.
Passiamo a parlare del resto del mondo, dove tutto si è capovolto, l’abbiamo visto con l’incontro tra Xi Jinping e Vladimir Putin, che Ardern ha conosciuto. “Questo è quello che succede quando si apre un vuoto”, dice, e il vuoto è stato creato dagli Stati Uniti, cioè da Donald Trump: “I diversi blocchi capitalizzano sui cambiamenti e sull’instabilità geopolitica americana, piena di un’incertezza aumentata dai dazi”. Ardern difende il diritto internazionale, che è “fondamentale, soprattutto per le nazioni più piccole come la Nuova Zelanda, che altrimenti non avrebbero una voce. Solo perché una superpotenza ha deciso di abbandonare il diritto e l’ordine internazionali per cui abbiamo combattuto, a cui si è lavorato a lungo, non vuol dire che deve crollare tutto il sistema”. Il diritto internazionale, dice, è garanzia di stabilità per tutti, “in un mondo incerto”. Dopo l’attentato alla moschea di Christchurch nel 2019 – peggior attacco nazionale, con 51 morti – Ardern si è impegnata non solo a mettere fuorilegge certe armi nel suo paese, ma anche a lavorare per un maggiore controllo sulla violenza online coinvolgendo altri leader e personalità tech. “Abbiamo sempre avuto cospirazionisti e strumenti di disinformazione, ma i social hanno accelerato le capacità di disseminare e amplificare”. Questo porta a conseguenze “a cui non avevamo pensato all’inizio, quando vedevamo i social come uno strumento di grande democratizzazione, che permetteva alle persone di organizzarsi e ai candidati politici di parlare direttamente alle comunità. Ora invece vediamo che hanno un effetto negativo sulla democrazia. Dobbiamo mantenere il diritto di libertà di parola, nessuno lo mette in dubbio, ma dovremmo trattare le piattaforme come editori”, con le loro responsabilità per ciò che viene pubblicato, dice Ardern.
Smalto giallo soft e camicia di jeans, Ardern ha appena lasciato Boston, è in giro per l’Europa per presentare il libro e fare incontri. Dice che in questi due anni americani ha sentito tanto il cambiamento portato da Trump, ma afferma anche di esser fiduciosa del fatto che le istituzioni non verranno rovinate per sempre dal trumpismo. Chiediamo all’ex primo ministro se è ottimista. Lei risponde con una lista di problemi – cambiamento climatico, Ucraina, Gaza, distruzione dell’ordine e del diritto internazionale, mancanza di fiducia nelle istituzioni e nella politica, disinteresse, estremismi – ma dice anche che in fondo sì, è ottimista. Perché “non abbiamo ancora visto le conseguenze a lungo termine del comportamento dei populisti e della destra estrema”. Ardern è convinta che quello “non è un approccio che avrà successo, e che le fratture nella società e il disordine internazionale non risolveranno nessuno dei problemi per cui la gente li ha eletti. Questo approccio populista durerà ancora poco, perché non stanno davvero risolvendo i problemi”.

Francia, prognosi riservata